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Recensione / È stato il figlio

 

 

Immagini sfocate e mutevoli, che disorientano. Man mano, si rivelano essere display. Sprazzi di inquadrature tracciano un ufficio postale. Come quello a cui Tancredi Ciraulo (Fabrizio Falco) veniva inviato dalla famiglia per corvée. Anche lì, attende il proprio turno un uomo dallo sguardo fisso (Alfredo Castro), che racconta storie magnetiche a metà fra reale e leggenda metropolitana. Vicende di violenza e omertà, fatte per una città dove udire spari fa parte del quotidiano.

Comincia così È stato il figlio, diretto da Daniele Ciprì. Alla Mostra del Cinema di Venezia 2012, si è aggiudicato il premio per il Miglior Contributo Tecnico (fotografia). Inoltre, il cast comprende Fabrizio Falco (Premio Marcello Mastroianni per gli attori emergenti). Sia quest’ultimo che Ciprì hanno collaborato anche a un’altra pellicola presentata alla Mostra: Bella addormentata, di Marco Bellocchio (http://inchiostro.unipv.it/?p=7603  ). Lo stesso dicasi di Pier Giorgio Bellocchio, qui nel ruolo d’un sordomuto. Pellicole d’autunno l’ha proposto al Politeama di Pavia, il 20 novembre 2012.
Tancredi ha 21 anni e un nome infausto: quello del crociato che uccide, ignaro, l’amata Clorinda, nella Gerusalemme Liberata di T. Tasso. Come lui, porta il peso d’un delitto non voluto. È un “eroe inetto”, che non sa parlare, né agire. Però, guarda. Il film è accompagnato dai suoi occhi sbarrati e profondi. Ben più consapevoli di quelli del padre Nicola (Toni Servillo), che nomina più volte la morte, senza saperla riconoscere, quando se la ritrova davanti. Col padre (Benedetto Ranelli) e il figlio, Nicola campa di recupero rottami. Lavora, per esempio, su una nave incagliata. Facile pensare alla Costa Concordia: una “tragedia del benessere”, come quella che sta per scatenarsi. Il capofamiglia dispiega un carattere dispotico e superficiale. Strapazza Tancredi, per la sua inettitudine al guadagno. Gli contrappone il “cugino modello”, Masino (Piero Misuraca): spavaldo, intraprendente, pragmatico. E legato alla mafia. Del resto, quest’ultima sembra essere l’unica fonte di benessere, per chi vive in quei quartieri poveri di Palermo, dove, ogni tanto, manca perfino l’acqua, senza che si sappia a chi darne la colpa. Qui, i primi giochi dei bambini pullulano di pistole ed esplosioni. Anche quelli di Serenella Ciraulo (Alessia Zammitti), stroncata dalla pallottola destinata a Masino. La sua famiglia piange amare lacrime, ma se le asciuga alla svelta, quando viene a saper del risarcimento versato dallo Stato per ogni vittima di mafia. Il denaro arriva, dopo una trafila burocratica incarnata da repellenti figuri e debiti con sfuggenti usurai. Anziché sopperire alle molte necessità della famiglia, Nicola compra una Mercedes. Essa diventa il totem di casa Ciraulo, vitello d’oro a cui tutto il resto è sacrificato. Poi, Masino (il “sostegno della famiglia”) convince Tancredi a profanare l’idolo. Il sacrificio della sorellina balena nello specchietto retrovisore. Subito dopo, l’irreparabile. In realtà, si tratta solo d’uno sfregio sulla carrozzeria. Ma la bestialità feticista di Nicola lo farà precipitare in tragedia.
Piace pensare che i grandi occhi di Tancredi colgano la “verità” della vicenda. Ma “verità” –così come “giustizia” e “legalità”- significa poco, là dove c’è urgenza di campare. Le parole di nonna Rosa (Aurora Quattrocchi) girano il coltello nella piaga, quanto a precariato giovanile. La matriarca, come spesso avviene in terra di mafia, prende in mano la situazione. Lo fa praticando un altro sacrificio umano. Mai troppo gravoso, in mezzo alla miseria, ove anche la grazia divina si misura in denaro. Intanto, però, i feticci del benessere tramontano. Rimane il sangue di chi, al contrario del sole, non tornerà più.

Erica Gazzoldi (@EricaGazzoldi)

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