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L’altra faccia di Gomorra: “Dieci storie proprio così”

Gomorra è una serie strepitosa, lo sappiamo tutti. Intensa, avvincente, assolutamente spietata. Un unicum sul panorama della produzione televisiva italiana e una sorpresa per quel pubblico internazionale che all’improvviso, dal paese di Don Matteo e dei Cesaroni, ha visto fare capolino uno show crime come mai se n’erano visti.[1] Le figure dei vari criminali si impossessano dello schermo e lo bucano, regalando momenti irripetibili in cui la vicenda fittizia incrocia situazioni tragicamente familiari agli abitanti delle zone chiamate in scena.

E, con tutta probabilità, è qui che Gomorra sbaglia.

La condanna dei vari protagonisti, effettivi cattivi della serie stessa, è palpabile, aleggia nell’aria come giudizio privo di parole. A parlare sono i fatti, a parlare è la violenza che, lasciata priva di commento, ci colpisce in tutta la sua intensità. Ma una simile condanna non basta: non provare empatia nei confronti dei vari membri del clan Savastano ci risulterebbe difficile; ancora di più evitare di appassionarci alle loro vicende o tenere per loro.[2] La serie, concentrata unicamente sui volti della malavita, non propone nessun esponente degno di nota dell’altra parte. La polizia, la legge, la giustizia, qui, non sono che concetti vaghi, gruppi di individui senza nome intenti di volta in volta a mettere i bastoni tra le ruote ai protagonisti o a passare dalla loro accettandone lo sporco denaro.

Il fascino del male (e di una lingua partenopea congelata in citazioni memorabili e ripetibili alla nausea, nostrani Say my name) è forte. E, nel contemplare il peggio che l’umanità ha da offrire, corriamo il rischio di dimenticarci di tutto il resto.

Per questi e per una miriade di altri motivi uno spettacolo come Dieci storie proprio così risulta necessario.

Organizzato presso il Piccolo Teatro di Milano da Emanuela Giordano e Giulia Minoli come parte integrante del progetto “Il Palcoscenico della legalità“, Dieci storie proprio così ha le forme del racconto, del comizio, della protesta. Sottratti a malapena dalla spoglia penombra del palco e accompagnati da incisivi quanto sobri intermezzi musicali, i protagonisti senza nome dipingono il mondo del crimine organizzato dalla parte delle vittime, degli sfruttati. Danno voce a chi in Gomorra non ne ha, a chi guardando Gomorra ha difficoltà a trovare le proverbiali differenze tra il televisore e ciò che lo circonda.

Le dieci storie del titolo sfumano in una serie di interventi, di testimonianze, di ricordi. Un banco di lavoro gremito di carte che concorrono tutte al raggiungimento di un solo fine: quello di rivelare il crimine organizzato in tutta la sua sozzura; piovra dai mille tentacoli che corrompe,[3] isola o uccide coloro che le si oppongono (o che, semplicemente, capitano nel posto sbagliato al momento sbagliato), distorce la legge nella sua parodia, si sostituisce alle istituzioni vigenti o le contamina fino a renderle irriconoscibili.

Uno spettacolo intenso, sentito, il cui chiaroscuro è qua e là diluito da sprazzi di colore splendidamente meridionali:[4] senza però che le dieci storie evitino il nord, insospettata provincia di quell’impero del male dai confini sbiaditi che è realtà attuale e preoccupante per tutta la nostra penisola.[5]

Se mi fosse concesso azzardare un paio di umili critiche, entrambe intrinsecamente connesse all’operato del pubblico, farei notare che la prassi dell’applauso tra un pezzo e l’altro i proseliti del grande teatrante russo Konstantin Sergeevič Stanislavskij[6] l’hanno “fatta” abolire anche al teatro nostrano una vita fa. E un motivo c’era. In secondo luogo, la trovata della compagnia di coinvolgere tutti (o quasi)[7] nell’esaltato coro «Combattiamo!», per quanto concettualmente potente, l’ho trovata veramente terrificante.

Gradirei concludere, balzando pindaricamente verso altri lidi e forse recuperando una (solo momentanea) parvenza di serietà,[8] con una menzione dell’Osservatorio Antimafie pavese: grande iniziativa di studenti connessa all’Università[9] che, in data 22 ottobre 2016, ha garantito la messa in scena di Dieci storie proprio così presso il nostro Fraschini; mesi prima che il Piccolo Teatro accogliesse lo spettacolo e lo catapultasse alle luci della ribalta milanese.

Mi spiace non esserci potuto essere allora. E sono felice di aver recuperato adesso.

 

[1] Si ricordi, a tal proposito, la classifica del New York Times secondo cui Gomorra sarebbe la terza “migliore” serie del 2016. Argento e oro sono toccati a due produzioni british, The Detectorists e Happy Valley: rispettivamente una deliziosa immersione nel mondo dei cercatori di metallo amatoriali (non “detectors”: “detectorists”, ci tengono a precisare), e una simil-Gomorra in chiave britannica sulla cui “superiorità” al prodotto nostrano ho i miei dubbi.

Chissà che non se ne parli, prossimamente…

[2] Per non menzionare la possibilità di rinunciare a ordinare du frittur presso qualunque ristoratore/negoziante/fornitore di servizi del terzo settore o quella di invitare i nostri coetanei a berlo. Tutto.

[3] Non si voglia vedere in questo paragone animale un’ostilità dell’autore nei confronti della piovra o di altri cefalopodi. La rappresentazione del meccanismo della mafia potrebbe aver chiamato in causa qualunque altro esponente del mondo animale; da una iena idrofoba meno ilare delle altre a una tarantola ossessivo-compulsiva in grado di tessere una tela di pizzo.

[4] Non aspettatevi di potervi venire a piglià o perdono, comunque. Lo spettacolo è quasi esclusivamente in italiano; quella del dialetto è soltanto un’intrusione sporadica. E almeno in questo caso sarà meglio averne, di penzier.

[5] La temibile mafia padana: cattivi come Totò Riina e attratti dalla ghisa come Matteo Salvini. Brrrrr.

[6] Il copia e incolla da Wikipedia è forte in questa menzione diretta.

[7] Devo confessare, con un atto di debole rinuncia alla solidarietà umana ma di trionfo della mia sedicente dignità di snob, di aver mantenuto una totale estraneità dal suddetto coro.

Ho dei testimoni.

[8] Volendoci rifare alle metafore animali utilizzate in precedenza, la rappresentazione più azzeccata del poeta greco Pindaro (e in particolare del “volo pindarico” che da lui prende il nome) corrisponde probabilmente a uno scoiattolo volante con un elmo da oplita.

[9] Iniziativa delineata nei meandri corrotti della mia psiche nelle forme di un mastodontico e cartoonesco telescopio che, adocchiato un altrettanto cartoonesco esponente della mala mentre questi è intento a chiedere il pizzo, sibila un minaccioso «Ti ho visto!». A seguire la rocambolesca fuga del malavitoso, braccato da vicino dall’inesorabile cerchio di visione.

Scusate, davvero. Non riesco a farne a meno.

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