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Scaturigine dell’essere e onirica visione – «Fiori estinti» di Mattia Tarantino

Fiori Estinti di Mattia Tarantino comincia a parlare fin dalla sua copertina: due angeli si mostrano al lettore che tiene tra le mani Fiori estinti, prima presenza visiva di quegli angeli che torneranno più volte nei versi di Mattia Tarantino, rivolti verso il basso, in un moto discendente.

fiori-estinti-copertinaMattia Tarantino è nato a Napoli nel 2001. Già autore di Tra l’angelo e la sillaba (Terra d’ulivi edizioni, 2017), giunge con Fiori estinti (Terra d’ulivi edizioni, 2019) alla sua seconda raccolta di poesie pubblicata. Co-dirige  Inverso – Giornale di poesia; fa parte della redazione di Menabò – Quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria e di Bibbia d’Asfalto – Poesia urbana e autostradale.

É difficile fornire un quadro descrittivo univoco di tutta l’opera: il lettore, una volta aperto il libro, si trova davanti a una lunga serie di componimenti volti a delineare non un racconto in versi, non un percorso o un quadro di vita (o di vite), ma la visione di un mondo che appare primigenio e al tempo stesso al finire dei suoi giorni.

Il titolo della raccolta è preludio di due elementi ricorrenti nelle imagini onirico-profetiche che si plasmano di poesia in poesia, di verso in verso: un sentimento di tragica desolazione contenuto nell’aggettivo «estinti», associato ad un elemento poeticamente classico quale i «fiori». É un titolo che non si concretizzerà mai in nitide immagini di pascoliana memoria (non c’è un mondo floreale frutto di un descrittivismo calligrafico), un mondo più vicino forse allo spirito baudelairiano di Les Fleurs du mal; a tal proposito vengono in mente, tra i versi di Tarantino, i «mille fiori orrendi» (Tra la polvere e la genesi, v. 24) oppure i «fiori morti» (Il trucco degli amanti, v. 1) fino ai «fiori estinti» (Fiori estinti. Elegia all’Europa v. 24), un sintagma che finalmente si fa presente nella raccolta.

Non ci sono sezioni identificate all’interno della raccolta, nessun tipo di divisione. La voce del poeta scorre ininterrotta, simile a quella di un profeta, di un antico cantore che ha perso la sua forza, ma non il suo canto. Chiamai la più grande / di ogni adunanza, scavai / nel ventre di Omero e trovai un crocifisso. / Non fui poeta, ma un gallo, e tossivo / e cacciavo le stelle. (Ancora l’estate, vv. 7-12). L’onirismo della parola si manifesta sia in un vocabolario cromatico ristretto, costruito fondamentalmente su tre colori, variati soltanto nella loro intensità (bianco o bianchissimo , nero o nerissimo, azzurro o azzurrissimo), e nell’assenza di coordinante spaziali (si hanno solo vaghe indicazioni): si parla più volte di un stanza, verosimilmente la stanza del poeta intesa come spazio fisico-psichico («la mia stanza», Estate. Intermezzo, v. 14), poi ancora di un bosco e di una tana, di un luogo a Ponente o a Oriente.

In questo “luogo” senza spazio e senza tempo la voce del poeta nel suo afflato profetico ricerca la genesi delle cose, della realtà, la scaturigine dell’essere nella parola attraverso la parola. «Che lo squarcio si richiuda sul tuo nome / inciso nell’argilla che troncò / il primo astro indovinato. […]» (Ponente, vv. 31-33; il grassetto non è di Tarantino). In questo circuito mistico convivono immagini ora mitiche (Astianatte, Prometeo, Icaro, Glauco), ora bibliche, ora quasi sciamaniche, e il nodo che le tiene unite non è solo un immaginario floreale, ma anche angelico. Gli angeli sono in queste liriche presenze perturbanti e ambigue, incarnano un scontro di forze nel reale, scontro che muove alla ricerca. 

In un simile universo poetico si corre il rischio di perdersi in un discorso autoreferenziale, ma a far da bussola non è il percorso di ricerca che guida il poeta e che finisce inevitabilmente per coinvolgere il lettore, quanto piuttosto un costante ritorno di immagini dense di problematicità: caso esemplare è la figura della madre, presente nella raccolta con un doppio aspetto, ora (e più spesso) la madre del poeta (L’orina del sorcio; La farfalla, infine, e l’epifragma; Ginnasio ), ora una madre dai tratti più universali (Barcellona; Il fanciullo e il dolore). Anche un certo vocabolario, che insiste su campi semantici precisi, aiuta nel percorso di lettura e decodifica del testo: si ricostruisce non soltanto un immaginario floreale, ma anche un immaginario ornitologico, fatto prevalentemente di allodole e passeri e uccelli più indefiniti, un immaginario del dolore, condensato in termini quali croce, sventrare, morte, vene, tagliare.

Questa poesia-indagine, poesia-visione non ha (ancora) una conclusione possibile. Torna l’immagine materna in Mia madre, penultima lirica composta soltanto da due distici:

 

Legge di Ponente la discordia
verticale che fu taglio: 

mia madre inghiotte cento fiori,
poi rimette dalle vene.

 

In questo testo vengono ripresi termini centrali nella raccolta e, soprattuto, l’immagine del taglio. Un affannosa ricerrca di qualcosa che è stato reciso. E dunque, nell’ultima lirica formata da un solo distico, Tarantino afferma:

 

Cerco un distico che chiuda
i miei versi o li sbaragli.


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Tommaso Romano

Redattore per «Inchiostro». Studente di «Antichità Classiche e Orientali» presso l’Università di Pavia, è appassionato di troppa roba. Cento ne pensa, cento ne fa, cento ne scrive (o vorrebbe).

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