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Intervista a Eleonora Rimolo – Poeti degli anni ’80 e ’90 (IP 2019)

Dedicata ad Eleonora Rimolo, una dei dodici protagonisti della raccolta Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90, edita da Interno Poesia per le cure di Giulia Martini, un’ulteriore intervista del ciclo incentrato sugli autori suddetti.

Eleonora Rimolo (Salerno, 1991), laureata in Lettere Classiche e in Filologia Moderna, è dottoranda in Studi Letterari presso l’Università di Salerno. Ha pubblicato il romanzo epistolare Amare le parole (Lite Editions, 2013) e le raccolte poetiche Dell’assenza e della presenza (Matisklo, 2013), La resa dei giorni (Alter Ego, 2015 – Premio Giovani Europa in Versi) e Temeraria gioia (Ladolfi, 2017 – Premio Pascoli “L’ora di Barga”, Premio Civetta di Minerva). La terra originale è il suo ultimo libro di poesie, uscito per la collana Gialla di Pordenonelegge-Lietocolle, con prefazione di Giancarlo Pontiggia (Premio Minturnae – Ornella Valerio). Con alcuni inediti ha vinto il Primo Premio Ossi di seppia (Taggia, 2017) e il Primo Premio Città di Conza (Avellino 2018). È Direttore per la sezione online della rivista Atelier.

Eleonora Rimolo: L’erranza è la peculiarità principale di quella che dovrebbe essere la buona poesia: la ricerca spasmodica, continua, di uno spazio amplio ma circoscritto di possibilità espressive diverse, molteplici, che hanno il compito di aprire al lettore mondi nuovi, angoli inesplorati di senso e di sentimento. Ad orientare questo vagabondaggio dovrebbero esserci le eredità dei padri che abbiamo amato, e che – se sono stati buoni padri – con il loro insegnamento ci hanno aiutato a fare nostro quello che è sempre stato dentro di noi, senza imposizioni né schiavitù. Se amare è lasciare all’altro la libertà di scegliere, un buon maestro e un buon padre non possono fare altro che mostrarci la strada sterminata dentro cui perderci per poi ritrovarci. Fare poesia significa documentare questo viaggio dentro la realtà e i suoi simboli cercando di non perdere mai di vista il ruolo principe dell’espressione – il luogo primario in cui la vita si forma e si realizza: Dilthey non a caso diceva che la poesia è la forma più compiuta di umanità.

È necessario che le nuove generazioni inizino a ragionare su ste stesse e sul loro passato prossimo in senso militante: che ben vengano dunque le antologie, i tentativi di decifrare delle tendenze, delle forme nuove, dei ritorni, dei fenomeni di qualunque tipo. Senza l’osservazione critica, senza una adeguata catalogazione – tutte cose che procedono per tentativi, certo, ma l’importante è provarci, mettersi in gioco – si rischia che del presente rimanga ben poco in futuro, e tutti noi siamo chiamati a fare qualcosa affinché non sia così.

Ludovica Rossi: Osservazione critica, catalogazione, bisogno di ordine da lei stessa definito “triste” in una sua lirica, poiché perennemente volto ad una mancata scoperta del seme: tentativi di ricostruzione e comprensione dunque spesso poco appaganti, anzi, come sottolineato da tanta letteratura specie novecentesca, non di rado votati ad una destabilizzante inconoscibilità, ma non per questo meno importanti, in quanto denotativi di un approccio attivo, maturo e consapevole al tutto circostante. È questo l’invito che rivolge alle nuove generazioni: farsi studiosi che «scavano le fondamenta […], credono a quanto c’è dietro la superficie», consapevoli che, indipendentemente dalla qualità dell’approdo finale, il percorso/ricerca stesso trova in sé medesimo la legittimazione del viaggio?

Eleonora Rimolo: A noi giovani spetta assecondare questo Streben, costruendo per quanto possibile durante questo percorso chiamato vita degli spazi e dei momenti dove riusciamo a specchiarci e a riconoscerci come creature originali, uniche, dopotutto fortunate per la possibilità che ci è stata data di volere, di desiderare, di cercare. Anche senza trovare.

Ludovica Rossi: Mantenere viva e fervida dunque la nostra ricettività alla vita, al fine di impedire che la ricchezza a noi propria si trasformi in «un bene semplice che non ti raggiunge»: questo in che modo scaturisce dalla sua poesia che, come sottolinea anche il curatore della prefazione ai suoi testi Mario Famularo, si rivela scarsamente accomodante e priva di certezze, ma non per questo meno impregnata di fortissimo sentire e dinamismo attivo?

Eleonora Rimolo: Non bisogna mai rinunciare alla vita: siamo chiamati a viverla ed è uno nostro diritto quanto un nostro dovere. Se siamo qui sarà anche per puro caso, ma intanto, appunto, ci siamo. E dobbiamo dare il meglio di noi stessi anche se l’esistenza è piena di spigolature, e senza certezza alcuna. Anzi, forse proprio per questo la sfida appare più interessante, più necessaria.

Ludovica Rossi: A tale assenza di certezze assolute pare contrapporsi il ruolo da lei attribuito, in uno degli inediti pubblicati da Interno Poesia, alla parola, che «come un fossile / segnala il resto parziale di un organismo, / di una cosa che c’era e che c’è»: è così?

Eleonora Rimolo: Sono fortemente convinta che il nostro inconscio, così come sosteneva Lacan, sia strutturato in linguaggio: per questo attribuisco alla parola un ruolo fondamentale per la conoscenza del Sè e dell’Altro. Certo è anche vero ciò che afferma Steiner, e cioè che il linguaggio è la maniera prediletta dall’uomo per rifiutare la realtà così com’è: io direi che la parola è uno strumento di conoscenza parziale, e nello stesso tempo un prezioso esercizio di astrazione. La realtà forse non è solo ciò che si vede, ed è giusto dar ragiona a Tabucchi quando scriveva che “la letteratura è il sintomo che la vita non basta”. Per quanto riguarda il testo specifico che lei cita, invece, direi che in questo caso la parola agisce come un’eco, un ricordo lontano di una voce che nonostante tutto ci spinge a credere che qualcosa c’è stato, è avvenuto. È fondamentale non rimanere immobili – e quindi muti – in ogni caso.

 

In allegato, un testo inedito apparso in Poeti degli anni ’80 e ’90 (IP, 2019).

A volte la macchina del mondo si ferma

con un lungo fschio ed io non so

quale passato usare mentre riposi,

se tu mi sia remoto o prossimo. Come un fossile

la parola segnala il resto parziale di un organismo,

di una cosa che c’era e che c’è: la scheggia

di un tuo dente perduto a scuola da bambino,

l’anello che porti sull’orecchio destro

e tutto quanto ti fa vivo e primitivo

dentro quell’orma sul pavimento,

traccia ovale del risveglio, esempio di partenza.

 

 

 

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