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Claudio Baglioni e i linguaggi della canzone d’amore

L’amore è senza dubbio la tematica più presente in tutta la nostra grande tradizione poetica, si pensi anche solo, semplificando estremamente, alle primissime liriche di Saffo, all’immensa tradizione amorosa della lirica latina (dai neoterici agli elegiaci), alla poesia d’oltralpe dei trovatori, e a tutta la nostra lirica in volgare a partire dal ‘200. La canzone moderna italiana non fa eccezione: dal 1958 ad oggi, sia nel Festival che nella canzone d’autore, l’amore è il tema senza dubbio più praticato.

In Italia, tra i cantautori che, nell’immaginario popolare, sono stati strettamente identificati con la canzone amorosa, spicca certamente il nome di Claudio Baglioni; per questo, la critica spesso lo ha bollato come kitsch, o come cantante pseudo-adolescenziale e decisamente smielato. Certo, se ci si limitasse ad alcuni brani della sua produzione, forse queste definizioni potrebbero apparire appropriate; se invece si analizzasse adeguatamente il suo percorso di evoluzione artistica, come è stato fatto negli ultimissimi anni da linguisti, semiologi e letterati, si scoprirebbe invece un autore molto più fine ed intellettuale (ma di questo si parlerà in un’altra puntata della rubrica). Ma già limitandosi ai linguaggi d’amore, si può evincere il cambio di rotta nella sua scrittura.

Il primissimo Baglioni di Questo piccolo grande amore (1972) si inserisce nella rivoluzione linguistica avviata dai cantautori degli anni ’60, i quali avevano gradatamente spazzato via la retorica che trionfava fino a quel momento, facendo entrare nei testi delle canzoni prima elementi colloquiali e quotidiani (si penso ai sassi di Gino Paoli), poi intere stringhe di parlato. Il brano eponimo dell’album (Questo piccolo grande amore) è ricco infatti di inserti dialogici («ti amo davvero, ti amo, lo giuro»), ed è incardinato su una sintassi molto nominale, a tratti elencativa («e chiare sere d’estate, i mari, i giochi, le fate, e la paura e la voglia»); abbondano inoltre i costrutti modulati sul parlato, come il cosiddetto che polivalente («che non glie l’ho detto mai, ma io ci andavo matto») o l’intercalare mica («ma io questa cosa qui mica l’ho mai creduta»), con tanto di dislocazione pronominale e insistenza sui dimostrativi: il testo di questa canzone, definito dal linguista Giuseppe Antonelli «a suo modo perfetto, per l’assenza di qualunque inarcatura poetica […] e una sintassi mossa dal vissuto», portava a compimento il percorso di svecchiamento del materiale linguistico della canzone, facendola sentire sempre più “vicina” al pubblico, sia agli adolescenti (a cui il brano si rivolge esplicitamente), sia a tutti gli “impegnati” che, come ha sottolineato il senatore e sociologo Luigi Manconi, nei loro incontri di gruppo suonavano De Andrè, ma che nella loro stanza in privato si lasciavano cullare dalle note di Baglioni.

Negli anni ‘80 tutto cambia, e Baglioni muta il suo stile di scrittura, anche in canzoni d’amore: un ottimo esempio è senz’altro Fotografie (da Strada facendo, 1981), brano che non presenta nessuna delle caratteristiche prima evidenziate. Il pretesto è la descrizione di una fotografia: ogni strofa ne introduce una diversa, scattata in un mese esplicitato (maggio, luglio, agosto, gennaio) o implicito, ma facilmente deducibile da una perifrasi di carattere metonimico («tenera e distratta primavera» per aprile, «colline di uva bianca» per settembre, «foglie arrugginite in fondo al viale» per ottobre, ecc…). Attraverso questo schema Baglioni racconta, con uno stile fortemente evocativo, l’evolversi della relazione d’amore, che procede in parallelo allo scorrere implacabile del tempo. Le fotografie restano fisse, nella loro immutabilità e fisicità; la storia d’amore, invece, si consuma, esattamente come si consuma il tempo. All’interno di questa struttura particolarmente originale, Baglioni inserisce una serie di costruzioni linguistiche che si rifanno a suggestioni poetiche Novecentesche; queste, a partire dalla fine degli anni ’70 (e poi massicciamente con gli anni ’80), trasformeranno la lingua della canzone, spingendola sempre di più sul versante della poesia (non la poesia contemporanea, ma quella del primo Novecento, che i cantautori avevano studiato sui banchi di scuola). Baglioni in particolare è tra i primissimi ad utilizzare la parestesia, una figura pertinente alla lingua degli ermetici, che prevede l’accostamento di un sostantivo concreto con un aggettivo astratto, ma che in canzone (e in particolare in Baglioni) di solito si ha con un verbo concreto che regge un sostantivo astratto. Nel cantautore romano spesso la parestesia realizza uno zeugma (un solo verbo che regge due complementi); in Fotografie abbiamo uno degli esempi migliori di tutto il corpus Baglioniano: «sbucci arance e stupide bugie»; ma anche «io stringevo agosto e te», oppure «un azzurro scalzo in cielo» (senza zeugma).

Tra la fine degli anni ’70 e i primissimi anni ’80, in canzone prende infatti piede la grammatica ermetica, teorizza da Pier Vincenzo Mengaldo, che dà una spinta verso l’alto ai testi delle canzoni; ermetismo in canzone quindi non significa oscurità o complessità di significati, ma presenza massiccia di questi tratti (come appunto la parestesia), che rivoluzionano completamente il linguaggio delle canzonette. Tratti ermetici vengono quindi utilizzati da Baglioni «con diligenza quasi scolastica», come provato da diversi studi, anche per innovare la classica canzone d’amore, prendendo quindi le distanza dal modello privilegiato negli anni ‘70. La costruzione di Fotografie, e l’abbondante ricerca nell’uso dei tratti ermetici, rendono Baglioni molto più autore, svincolandolo da quell’immagine frivola di cantantantucolo dei buoni sentimenti per ragazzini; il suo percorso evolutivo lo porterà poi a toccare, tra gli anni ’80 e il Duemila, tematiche completamente inedite per la sua produzione artistica, attraverso un uso della lingua sempre più originale e particolare.

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