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“I can’t breathe!”

George Floyd aveva 46 anni ed è stato ucciso lunedì a Minneapolis, nel Minnesota, da un poliziotto. Era disarmato.
Floyd non aveva nessun segno particolare. Forse, solo quello di essere stato amico del giocatore dell’NBA Stephen Jackson. O forse in realtà ne aveva uno, anche molto evidente: il colore della sua pelle. Nera.
Non un dettaglio ininfluente, visto che proprio il suo essere un afroamericano e le circostanze della sua morte sono in questi giorni il fulcro del dibattito pubblico statunitense. L’uomo è morto dopo essere stato soffocato ed ammanettato dalla polizia.
Le immagini della morte di George Floyd sono state riprese in un video che ha poi fatto il giro del Web: un poliziotto lo tiene per terra con le ginocchia che gli premono sulla gola. Nel video si possono sentire chiaramente le suppliche di Floyd, “Vi prego, non uccidetemi”, “Non riesco a respirare”, “Basta”. I passanti in sottofondo supplicano il poliziotto di fermarsi. Lui non si ferma. George Floyd è stato poi portato in ospedale, ed è morto lì.
Cosa è accaduto prima?

La ricostruzione dei fatti dichiarata dalla polizia è che le forze dell’ordine siano state chiamate da un negoziante locale perché Floyd lo aveva pagato con una banconota falsa. I poliziotti sarebbero arrivati subito ed avrebbero trovato l’uomo sotto effetto di droghe e alcol: questo avrebbe quindi costretto gli agenti ad immobilizzarlo.
George Floyd, però, era ammanettato ed impossibilitato a muoversi, e aveva anche il naso rotto e diverse ferite. Era impotente mentre un poliziotto lo stava soffocando. Le autorità hanno immediatamente preso le distanze dall’operato degli uomini, che sono stati licenziati. Qualche politico, come la senatrice democratica Amy Klobuchar,  ha addirittura chiesto una commissione di indagine indipendente. La morte dell’uomo ha causato immediate proteste e fatto riemergere il mai svanito spettro del razzismo negli USA, in particolare quello all’interno delle forze di polizia.

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Manifestanti a Minneapolis denunciano l’omicidio di George Floyd, mercoledì

Il caso di Rodney King, il tassista di colore pestato a sangue dai poliziotti a Los Angeles nel ’92, sarà stato il più celebre e quello con l’impatto più evidente, ma non è stato certo l’unico né l’ultimo. Lo stesso anno Malice Greene veniva ucciso da agenti in borghese con un veicolo non d’ordinanza, massacrato con ripetuti colpi alla testa, e appena quattro anni dopo Nathaniel Levi Gaines – veterano di guerra e nero – veniva ucciso da un poliziotto, poi condannato.
Questi sono solo alcuni casi isolati, ma secondo il sito MappingPoliceViolence.org nel solo 2015 la polizia americana ha ucciso 104 persone di colore disarmate, ossia 1/3 di quelle uccise in totale. Di quei 104 casi, solo 13 sono risultati in accuse legali, e solo 4 si sono poi tradotte in condanne.
I neri hanno, negli Stati Uniti, una probabilità di essere uccisi dalla polizia cinque volte maggiore rispetto ai bianchi. Recentemente Joshua Correll, ricercatore presso l’università di Colorado Boulder, ha realizzato per un esperimento un videogioco in cui il giocatore impersona un ufficiale di polizia che deve proteggersi da eventuali minacce. All’interno della simulazione ci sono uomini bianchi e neri. A parità di condizioni e numeri,  le statistiche dimostrano che si è condizionati a sparare di più verso la persona di colore. La cosa surreale è che i soggetti testati non erano tutti bianchi, erano presenti anche persone di altre etnie: il condizionamento culturale è quindi pervasivo, latente, radicato.

Nel 2013, su Twitter, è stato lanciato l’hashtag #BlackLivesMatter, “ Le vite dei neri contano”, in seguito all’ennesima assoluzione per l’omicidio di un giovane afroamericano, Trayvon Martin. Dall’hashtag è partito l’omonimo movimento, che proprio in questi giorni è riesploso e probabilmente si incendierà ulteriormente; malgrado una flessione sotto la presidenza di Donald Trump, Black Lives Matter è ancora vigoroso, e in questi giorni lo sta dimostrando manifestando in molte città degli Stati Uniti.

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Un ragazzo manifesta a New York con il movimento Black Lives Matter, nel 2017

L’istituzionalizzazione del razzismo rimane un problema grave in America, soprattutto nel settore dell’ordine pubblico. Con 2,3 milioni di carcerati, gli USA detengono il record mondiale di popolazione detenuta, battendo l’Arabia Saudita, la Cina e la Russia per ospiti delle prigioni: 689 abitanti su 100.000 sono in carcere. Di questi, ispanici e afroamericani formano il 56 %, pur costituendo questi due gruppi solo il 28 % degli abitanti complessivi del Paese.
I cittadini  di colore manifestano apertamente sfiducia nel sistema penale americano: molti sentono che il Racial profiling, la pratica di organizzare le indagini su base razziale, sia a loro svantaggio e manifestano fastidio e distanza dalle istituzioni. A parità di reati, infatti, il sistema penale colpisce in modo più brutale le minoranze etniche, gli afroamericani in particolare. Questo perché le comunità di colore sono maggiormente sorvegliate (sorvegliate, non protette) e soprattutto perché l’apparato legale è strutturato in modo da punire in modo deliberatamente più duro certi gruppi rispetto ad altri. Non è solo una questione di classismo: mentre è vero che in tutte le società i più ricchi hanno accesso a tutele migliori, negli Stati Uniti l’impianto legale è spesso utilizzato con finalità discriminatorie.

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Alvin Kennard: passò 36 anni in carcere per aver rubato 50 dollari dalla cassa di una pasticceria, in Alabama. E’ stato liberato l’anno scorso.

Uno dei reati più diffusi fra i carcerati è lo spaccio di stupefacenti. Sebbene le statistiche dicano che il consumo di stupefacenti fra le varie etnie non sia particolarmente difforme, le persone di colore sono più  a rischio sanzione, e spesso sono più sanzionate. Gli stupefacenti tradizionalmente utilizzati dalle classi più  povere, o, per essere più specifici, dagli afroamericani, sono soggetti a pene ben più severe di quelle per le droghe utilizzate dai ricchi, dai bianchi dei quartieri alti. Non solo, ma anche il possesso dello stesso tipo di droga porta a trattamenti differenti: un nero con della marijuana ha 3,7 volte più probabilità di un bianco di essere arrestato.
Questi non sono dei danni collaterali, degli incidenti. E’ un meccanismo spesso deliberato. L’ex Presidente Richard Nixon ammetteva tranquillamente (almeno privatamente) di aver ideato la guerra alla droga per incarcerare hippies e neri, per ridurre il movimento dei diritti civili al silenzio. I linciaggi e le discriminazioni legali operate ai danni delle persone di colore sono state una delle componenti innegabili del sistema sociale, uno strumento tremendo per annientare i diritti di un intero popolo.
Tutte queste cose sono solo la punta dell’iceberg di una situazione molto più ampia, dalla disparità nella scuola a quella nella sanità. Una situazione di abusi mascherati e normalizzati, che attraverso la morte di un disperato che supplicava aiuto perché non riusciva a respirare esplode, ancora una volta, in tutta la sua feroce verità.

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