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“Ma quale mafia? Io faccio fatture fittizie.”

Intervista ad Alessandra Dolci 

Di Ines Fehri  

La dottoressa Alessandra Dolci inizia la sua carriera giudiziaria come magistrato a 26 anni presso la Procura della Repubblica di Monza. Il 20 dicembre 2017 assume il ruolo di procuratore aggiunto a Milano, succedendo a Ilda Boccassini, con cui collabora per anni. Su proposta del CSM, è nominata coordinatrice della Direzione Distrettuale Antimafia, continuando così il suo impegno contro la criminalità organizzata.
Vincitrice del premio Borsellino nel 2018, combatte con successo le infiltrazioni della ‘ndrangheta nella società e nell’economia della Lombardia. Tra le sue indagini più note si ricorda l’operazione “Crimine-Infinito”, che portò a circa 200 arresti tra Milano e Reggio Calabria, colpevoli di reati quali omicidio, traffico di droga, ostacolo al libero esercizio del voto e riciclaggio di denaro proveniente da attività illegali come corruzione, estorsione ed usura. Fu mossa l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso a tutti gli imputati, accusa su cui si concentrò l’indagine. L’operazione “Infinito” ha segnato un punto di svolta cruciale, infliggendo un duro colpo alla mafia calabrese e costringendola a rivedere le proprie strategie di espansione, nonché la struttura di comando nelle nuove aree di interesse. Parallelamente, ha messo in luce in modo inequivocabile la presenza radicata anche al Nord di un’organizzazione mafiosa, spesso erroneamente associata al sottosviluppo del Sud.

Determinata, appassionata e all’apparenza austera: la incontro al V piano del labirintico palazzo di Giustizia di Milano nel tentativo di sensibilizzare i giovani riguardo al tema, sfortunatamente sempre attuale e vicino, delle mafie. 

L’indagine “Infinito” è stata un punto di svolta nella lotta alla mafia. Vorrei approfondire quali siano stati i principali ostacoli che ha incontrato durante questa indagine e come sia riuscita ad ottenere risultati così significativi nella lotta contro la criminalità organizzata. 

L’indagine è stata molto importante perché ha consentito di poter affermare e di aggiudicare, attraverso più sentenze dalla Corte di Cassazione, l’unitarietà dell’associazione mafiosa denominata Ndrangheta che prima era considerata un insieme di ndrine, tra loro occasionalmente collegate, ma il principio di unitarietà non era mai stato riconosciuto. Abbiamo incontrato ostacoli ma credo che in realtà sia stata la rappresentazione di una felice sinergia e collaborazione tra più autorità giudiziarie, soprattutto tra noi e la DDA di Reggio Calabria, e anche tra le forze di polizia. Normalmente tra le forze di polizia c’è una certa rivalità, in questo caso invece hanno collaborato fianco a fianco autorità diverse. Quando si parla dell’importanza di combattere le mafie attraverso innanzitutto la sinergia istituzionale, Crimine Infinito ne è un esempio, poi in concreto le difficoltà sono quelle che noi incontriamo solitamente nelle nostre indagini perché le attività di captazione, cioè di intercettazione, sono sempre complesse. Mettere microspie in contesti che sono sotto il controllo dei soggetti che poi si vanno a riunire è difficoltoso, dobbiamo essere particolarmente abili e in quel caso lo siamo stati.

Complimenti. C’è una domanda forse scomoda ma importante da affrontare: quanto coinvolgimento ha lo stato con la mafia e quanto diffusa è la corruzione nelle istituzioni oggi? È una leggenda o esiste una base di verità in queste accuse?

La corruzione è un reato, chiamato reato a cifra oscura perché naturalmente non ci sono denunce, elevatissimo, procedimenti per corruzione nel nostro Paese ce ne sono pochissimi e quindi possiamo semplicemente dare delle indicazioni di massima.. si dice che il peso della corruzione nel nostro Paese si misuri ogni anno in una cifra intorno ai 60 miliardi di euro. I processi sono veramente pochi, ma si ha la percezione di una corruzione diffusa […] Una corruzione di due tipi: una di basso profilo parcellizzata, che emerge per esempio molto spesso nelle nostre indagini di criminalità organizzata, faccio l’esempio della corruzione del tecnico del comune per sanare un abuso edilizio, quella dell’appartenente alla polizia locale per togliere una multa, quindi fatti di bassissimo livello, piuttosto che la corruzione dell’appartenente alle forze di polizia per avere notizie sulle investigazioni in atto.. anche questo documentiamo nelle nostre indagini. Ci sono poi forme di corruzione molto più significative, sistemiche, in cui ci sono dei veri e propri cartelli di potere che di solito fanno capo a una figura che viene chiamata facilitatore o faccendiere, che non è un pubblico ufficiale ma magari è espressione del partito che è in grado di esercitare condizionamenti sul pubblico ufficiale, che deve decidere del procedimento amministrativo. È un fenomeno che sfugge molto alle investigazioni.

Negli anni passati, la mafia era nota per l’utilizzo di metodi coercitivi, ricatti, violenze e sequestri per affermare il proprio potere. Tuttavia, oggi sembra che la mafia sia più organizzata e persino ‘ordinata’, assumendo i tratti di una società strutturata. Nonostante questa percezione di cambiamento, vi sono ancora episodi di violenza significativi o la mafia ha realmente adottato metodi più sottili nel perseguire i propri interessi? Questo ostacola di più il suo lavoro o “seguire i soldi” è sempre la strada migliore? 

Sicuramente vi è una mutazione genetica nelle mafie, hanno accentuato di molto la vocazione imprenditoriale e quindi sostanzialmente hanno occupato determinati settori della nostra economia. Il ricorso a metodi violenti è veramente la soluzione residuale. Loro stessi in una recentissima indagine dicono, mi ha colpito questa frase tra i due interlocutori, “hai visto che senza gli spari sono cambiate molte cose per noi?”.. sanno che ricorrere raramente a episodi di intimidazione ha come conseguenza una maggiore accettazione sociale. Non sono più percepiti come delinquenti ma spesso purtroppo come normali operatori economici. Questo naturalmente ci pone dei problemi, perché uno degli elementi tipizzanti della fattispecie che noi andiamo a contestare, 416 bis, è l’avvalimento del metodo mafioso e diventa difficile cogliere l’avvalimento del metodo mafioso in un contesto relazionale che vede soprattutto rapporti tra soci dove non si registrano atti di intimidazione o di violenza. Noi spesso nelle nostre indagini contestiamo reati di natura economica, quindi reati fiscali, reati di bancarotta con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa. Contestiamo l’aggravante dell’agevolazione mafiosa quando riusciamo a dimostrare che parte dei profitti, dei reati economici, viene utilizzato per il sostentamento delle famiglie, dei detenuti.

La mafia in origine era basata su principi di lealtà, fedeltà e onore familiare. Quanto ancora è presente questo “codice” all’interno delle organizzazioni mafiose odierne e quanto è libera la partecipazione alle stesse? Se la mafia non si basa più su quei valori tradizionali, su cosa si basa oggi? 

La mafia di oggi si basa ancora su quei valori tradizionali, ha cambiato la propria faccia esterna ma è un contesto criminale molto chiuso e coeso all’interno per il quale valgono sempre le vecchie regole e una delle principali è l’onore. L’onore che significa non tradire i propri sodali, quindi non collaborare con le autorità né in forma ufficiale né come confidenti, e l’onore portato dalle famiglie. Un ruolo fondamentale nel mondo dell’Ndrangheta è tuttora rivestito dalle donne perché sono loro che portano l’onore della famiglia; alle donne di Ndrangheta sono ancora richiesti comportamenti improntati a massima serietà. 

Con l’avvento delle nuove tecnologie, sono cambiate le comunicazioni tra i mafiosi? È più semplice intercettarle? 

Le comunicazioni per i traffici illeciti avvengono con i cripto telefonini, che non sono intercettabili, una volta che vengono sequestrati la loro memoria si cancella automaticamente e quindi questo rende estremamente difficoltosa l’indagine. Un paio d’anni fa siamo stati fortunati, le autorità belga e francesi sono riuscite a sequestrare i server di alcuni di questi software utilizzati: si chiamano “Encrochat” e “Sky-Ecc”.  Questo ci ha consentito di acquisire le chat perché le stesse, che non intercettiamo e che non troviamo nel telefono, in realtà sono conservate nei server e quando sequestriamo i server scopriamo il mondo che ci era sfuggito.

Si dice che la mafia giunta fin in Lombardia sia la mafia degli imprenditori, una mafia economica. Vorrei capire quanto sia cambiata in questo senso e quali siano le caratteristiche distintive di questa “nuova” mafia. Di cosa si occupa principalmente e quanto è pericolosa per la società e l’economia regionale? 

Non è una nuova mafia, semplicemente è una  mafia che ha cambiato strategia. Innanzitutto ha capito, ma non da ora, che deve reinvestire parte dei proventi e dei traffici illeciti di droga, perché  il motore finanziario delle mafie sono sempre i traffici di droga […] li reinvestono nell’economia legale e quindi cercano di occupare sempre più vasti settori che sono, oltre a quello tradizionale dell’edilizia, il settore della ristorazione, i bar, il settore turistico, il settore di videopoker, la gestione dei rifiuti, la logistica. Quindi, gestiscono imprese che sono meri contenitori di manovalanza messe a disposizione di imprese committenti medio-grandi, piuttosto che imprese che esistono soltanto sulla carta, che noi chiamiamo cartiere e che servono unicamente per creare fittizi crediti d’imposta, fatture fittizie, per commettere dunque reati fiscali. Non c’è un settore in cui loro non siano impegnati però, attenzione, si tratta sempre di settori che vedono prestazioni lavorative di basso profilo tecnologico: non li troveremo a produrre microchip, almeno, fino ad ora… 

Veniamo a lei. Che cosa significa essere Procuratore? Quanto è pericoloso fare il suo lavoro e cosa la spinge a sacrificare così tanto per perseguire la giustizia? Ne vale la pena? 

Io ho sempre detto che la ragione che mi ha spinto a scegliere questo lavoro è che non c’è cosa più bella che rendere giustizia a chi ha subito un torto. L’aspetto che dà maggiormente soddisfazione del mio lavoro? Non colgo l’aspetto di sacrificio… lo dico ancora adesso, a distanza di quasi 40 anni dall’inizio di quest’avventura, è il lavoro più bello del mondo.

È da sempre il suo sogno o aveva altri piani per la sua carriera? 

No, quando mi sono laureata in giurisprudenza mi sono guardata intorno ma questa era la mia strada.

Come capo della direzione antimafia di Milano, quali sono le responsabilità più impegnative che deve affrontare nella sua quotidiana lotta contro la criminalità organizzata? Come gestisce e coordina le operazioni per garantire risultati efficaci nella regione lombarda?

E’ faticoso coordinare le investigazioni che fanno capo a tutti i colleghi che fanno parte della DDA, attraverso l’apporto della procura nazionale antimafia, che è fondamentale, con le altre distrettuali che si trovano nel nostro paese. Siamo 26 procure distrettuali antimafia, quindi spesso ci sono riunioni presso la procura nazionale a Roma per coordinare investigazioni che hanno profili di convergenza, perché ovviamente in tutte le indagini in cui noi investighiamo dobbiamo rapportarci ai colleghi delle DDA di Catanzaro piuttosto che di Reggio Calabria… è faticoso questo lavoro di coordinamento, da un lato, dall’altro bisogna anche avere la capacità di avere una visione di sistema che permetta di guardare avanti e pensare a nuove strategie di contrasto della criminalità mafiosa. Per esempio noi abbiamo recentemente stipulato dei protocolli con le sezioni fallimentari di tutti i tribunali del distretto, perché riteniamo che in molte procedure fallimentari sia rilevabile la presenza di soggetti appartenenti alla criminalità organizzata. 

Si tratta di guardare avanti. Loro hanno cambiato strategia, hanno accentuato la vocazione imprenditoriale e ora la figura vincente è quella della mafia imprenditrice. Bene, anche da parte nostra è richiesta una professionalità di tipo diverso, sicuramente una professionalità che attiene ai reati economici che prima erano estranei al mondo mafioso, e bisogna andare a trovare input investigativi in settori diversi rispetto a quelli tradizionali. Ancora oggi abbiamo il monitoraggio dei reati spia, quindi la ruspa che va fuoco nel cantiere, il proiettile recapitato all’imprenditore, la testa di maiale mozzata… ma quelli che una volta erano gli input che davano origine alle indagini, ora, quelle violente, sono manifestazioni della mafiosità assolutamente residuali. Quel bacino di alimentazione si sta esaurendo… dove andare a cogliere la presenza? Nelle procedure fallimentari per esempio, e nelle segnalazioni di operazioni sospette che sono in questi giorni nell’occhio del ciclone e che sono invece importantissime per noi.

Nello scenario internazionale, che posizione occupa la mafia? Che rapporto ha con l’estero? 

Le mafie hanno una proiezione decisamente transnazionale sotto diversi profili. Con riferimento alla consumazione di reati transnazionali, tipicamente il traffico internazionale di sostanze stupefacenti in relazione ai flussi economici che vedono altri paesi coinvolti nell’attività di riciclaggio, ma non solo, esporta anche il proprio know-how tradizionale. Abbiamo scoperto locali di ndrangheta in Svizzera, in Germania, quindi il proprio brand tradizionale lo esportano in vari paesi, parliamo anche di Canada e Australia.. è importantissima la collaborazione internazionale. […] C’è una particolare sensibilità in questo momento dei paesi dell’Unione Europea e un particolare interesse nei confronti della nostra legislazione, cioè la legislazione che ci ha consentito fino ad adesso di contrastare le mafie, tant’è che credo che sia al vaglio del Parlamento Europeo una nuova direttiva in tema di confische che trae ispirazione dalla Legge Rognoni-La Torre. Siamo un esempio per gli altri paesi.

Guardando avanti, quali sono le sfide più pressanti che prevede per il futuro della lotta alla mafia? L’impressione dei giovani è quella di una mafia che quasi non esiste, l’idea è quella di un mostro del passato di cui è presente solo l’ombra. Quando pensiamo alla mafia noi pensiamo a Totò Riina, alle organizzazioni di persone fisiche che si giuravano fedeltà o venivano costrette a farlo. Pensiamo a quelli che agivano tramite sequestri e omicidi, e forse l’assenza di questo aspetto ci porta a non percepire questa “mafia economica” come vera e propria mafia. Mi chiedo quanto sia vicina a noi invece questa realtà e quale messaggio vorrebbe trasmettere ai giovani riguardo alla necessità di impegnarsi nella lotta per la difesa dei valori di giustizia e legalità nella società…

Per riconoscere le mafie bisogna conoscerle e quindi bisogna essere informati sul passato, perché non si capisce il presente se non attraverso il passato. Ma, bisogna conoscere anche il presente. E quindi questo richiede anche da parte dei giovani che vogliono approcciarsi a questi temi un continuo aggiornamento. Quel che ci allarma è sicuramente l’aumento del consenso sociale delle mafie, proprio perché vengono percepite come normali operatori socio-economici. Pensiamo anche al passato. Cent’anni fa in Sicilia si diceva che esisteva la mafia buona, la mafia che risolveva problemi attraverso la mediazione mafiosa. C’era un ministro della Repubblica, il ministro Orlando, che aveva detto che la mafia non esisteva sostanzialmente, che l’essere mafioso è semplicemente avere un grande senso dell’onore, rispettare i patti di fedeltà. C’è una frase spesso riportata in molti testi sul tema della mafia.

«Or vi dico, signori, che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte. Se per mafia si intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo!» Vittorio Emanuele Orlando, 28 giugno 1925 al Teatro Massimo di Palermo, nel comizio elettorale per la Unione palermitana per la libertà.

[…] Quindi c’era l’idea che esistesse una mafia buona. Ora il pericolo è che sia ancora ferma l’idea che esista una mafia buona perché non spara. 

Penso sia proprio questo a rendere più semplice ignorare la presenza della mafia o non percepirne più l’impatto come una volta… 

Bisogna stare attenti e bisogna anche pensare che la mafia buona non esiste. Primo, perché in caso di criticità sono rapidissimi nel mostrare il rovescio della medaglia. Secondo, non dimentichiamo che tutti questi flussi economici.. da dove vengono? Dalla droga.

Ecco. Forse per alcuni è difficile mantenere un atteggiamento lucido sia per la decisa riduzione di episodi violenti che per una percezione distorta che vede la mafia come apportatrice di benefici economici, scordandosi però della provenienza degli stessi…

Il fatto è questo: che la mafia ha capito che soprattutto in questi contesti socio economici molto sviluppati vi è una forte domanda di evasione fiscale, e quindi si è messa a disposizione per favorire la domanda. Questo appunto fa venir meno la riprovazione sociale perché in fondo loro fanno quello che fanno molti altri e ogni volta che li prendiamo si difendono dicendo “ma quale mafia? Io faccio fatture fittizie” e quindi “faccio quello che fanno molti in questo paese”. 

Se non c’è nessuna forma di discredito che accompagna le manifestazioni tipiche della criminalità economica, quindi i reati fiscali, le bancarotte sistematiche, la mancanza di discredito, ovviamente hanno vantaggio anche i mafiosi che si sono inseriti a pieno titolo nella nostra economia. Bisognerebbe chiedersi, da cittadini lombardi, perché, se 30 anni fa percepivamo tutti i mafiosi come un corpo assolutamente estraneo alla nostra società e la commissione parlamentare antimafia nel 94 scriveva che il nord, tenuto conto della coesione sociale e dei forti valori, aveva sicuramente gli anticorpi per contrastare l’infiltrazione della criminalità mafiosa, a distanza di oltre 30 anni invece ce l’abbiamo in casa.. parliamo di colonizzazione.

La ringrazio. Io ho sempre immaginato la mafia un po’ come l’acqua, prende la forma del contenitore in cui viene versata.. si può dire abbia dimostrato di sapersi adattare molto facilmente e purtroppo molto bene al contesto storico e sociale in cui si trova. Giovanni Falcone diceva che la mafia è un fatto umano e come ogni fatto umano ha un inizio ed una fine. Pongo a lei la stessa domanda… la mafia, finirà mai?

Posso solo dire che io non vedo la fine.

Non la vede?

No, però io ho fatto il mio percorso, anzi, sono nella fase finale del mio percorso per cui ho fatto quello che potevo ma non vedo la fine e i segnali che ho non sono positivi. Mi capita dopo più o meno 25 anni che mi occupo di antimafia di trovare e arrestare le stesse persone che ho arrestato più di 20 anni fa, oppure i loro figli e i loro nipoti, ovviamente nella nuova veste “imprenditoriale”. Quel che mi colpisce è avere modo di toccare con mano la legittimazione sociale che hanno acquisito, per cui vedere che soggetti che sono stati condannati per reati di mafia sono considerati dal contesto socio-economico come dei normali imprenditori mi fa male, perché non c’è assolutamente lo stigma sociale.

Era per questo che prima le chiedevo se ne valesse la pena… 

Sì. 

Sì? 

Sì.

Intervista avvenuta in data 08/03/2024 

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