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Cosa ci resterà del Super Tuesday più noioso dell’ultimo quarto di secolo?

In tutta onestà, il risultato delle primarie dei due principali partiti statunitensi era molto più che prevedibile già da diversi mesi: solo chi avesse una particolare predilizione per il rischio estremo avrebbe scommesso su qualcun altro oltre a Donald Trump e Joe Biden, prospettando una riedizione della sfida del 2020.
Di solito, il Super Tuesday è un momento significativo: un considerevole numero di Stati – solitamente una dozzina – tiene le proprie primarie e caucus. Milioni di elettori iscritti ai due principali partiti si attivano in questa data, spesso considerata il vero punto di svolta dell’anno elettorale. Dalle fredde coste del Maine agli enormi centri urbani della costa californiana, dalle spopolate contee rurali dell’Oklahoma a quelle più densamente abitate nell’area suburbana di Minneapolis, un martedì di marzo diventa il momento in cui gli iscritti ai due partiti possono esprimere la propria preferenza e, di conseguenza, definire in maniera chiara la linea del partito in vista delle elezioni federali di novembre.

Quel martedì di tardo inverno che, in genere, si colloca a un mese di distanza dai caucus dell’Iowa è una data che storicamente cattura l’attenzione degli appassionati, degli analisti e delle agenzie di stampa: la lunga notte elettorale è quasi paragonabile, per intensità e durata, a quella delle elezioni presidenziali di novembre e ne è una premessa fondamentale.
Le sorprese, di solito, non mancano. Nel 2016, tra i democratici, gli eccellenti risultati di Bernie Sanders hanno messo ulteriormente – e forse inaspettatamente – in discussione la campagna di Hillary Clinton. Allo stesso tempo, i deludenti risultati di Marco Rubio, giovane senatore repubblicano della Florida, hanno lasciato al collega texano Ted Cruz il ruolo di principale inseguitore di Donald Trump.
Ancora nel 2020, una decisa affermazione di Joe Biden, già favorito dal momentum ottenuto dalla vittoria in South Carolina, ha portato al ritiro di Elizabeth Warren e Michael Bloomberg.

Un sostenitore di Donald Trump di fronte alla Corte Suprema alla del Super Tuesday. Crediti: Elvert Barnes Protest Photography via Flickr.

E, in un certo senso, persino in questo 2024, in un tutto sommato noioso martedì di marzo, alcuni aspetti si sono rivelati più interessanti e meno scontati rispetto ai freddi numeri della conta dei delegati e alla formalizzazione del rematch tra Joe Biden e il suo immediato predecessore. Si tratta di fatti apparentemente marginali e spesso non interconnessi, ma che possono risultare utili per comprendere le tendenze che animano gli elettorati oggi. Queste questioni sono a volte estremamente localizzate, apparentemente prive di un richiamo nazionale. In altri casi, invece, sono diffuse su ampi territori e coinvolgono vaste fasce della popolazione, sintomo di dinamiche che interessano un’importante parte della società.
Sembra, quindi, ragionevole sostenere che, pur essendo il più noioso Super Tuesday dell’ultimo quarto di secolo, anche quello del 5 marzo 2024 lascerà qualche ricordo. Vi sono alcuni motivi – per quanto disparati e piuttosto confusionari – che permettono di prendere questa posizione a cuor leggero.

Da una parte, quella Democratica, il fenomeno “uncommitted”: guardando ai risultati delle primarie in alcuni Stati – in particolare nella regione dei Grandi Laghi – si può facilmente notare un alto numero di voti “uncommitted”, vale a dire voti per delegati alla Convention Democratica che non siano legati a nessun candidato in particolare. Anzi, ad essere più specifici, oltre 370.000 voti – più del 5% dei voti totali – sono andati a questa particolare opzione. È un dato significativamente superiore ai voti ottenuti dal Rappresentante del Minnesota Dean Phillips (235.000) e dall’autrice Marianne Williamson (230.000).
Questa tendenza, emersa già in occasione delle primarie del 27 febbraio in Michigan, riflette una parte dell’elettorato giovane del Partito Democratico che protesta contro la posizione mantenuta dal presidente Biden nel corso del conflitto israelo-palestinese. Non sorprende, quindi, che durante il Super Tuesday questa opzione abbia ottenuto un particolare successo negli Stati in cui l’elettorato democratico può vantare una significativa base giovanile, spesso affiliata alla minoranza arabo-americana.
In Minnesota un elettore su cinque ha scelto di votare “uncommitted” – ed è impressionante la correlazione tra questa scelta e la percentuale di elettori Millennial e Gen Z – mentre in Massachusetts e Colorado l’opzione è stata scelta da quasi un elettore su dieci. Come accennato in precedenza, qualche giorno prima, 101.436 elettori del Michigan avevano espresso il loro voto in modo simile, inviando un segnale significativo alla campagna di Joe Biden, contando persino sul supporto della Rappresentante Rashida Tlaib, esponente della parte radicale dei Democratici.
La protesta interna ai Democratici è, quindi, un segnale che il Presidente americano non può permettersi di sottovalutare: la leadership di Joe Biden appare, da qualche mese, piuttosto traballante e il fenomeno “uncommitted” sembrerebbe il più evidente campanello d’allarme.
In vista dei prossimi appuntamenti delle primarie e, ancora più chiaramente, in vista dell’appuntamento elettorale di novembre.

Il rapporto tra voti “uncommitted” e percentuale di popolazione under 35 in Minnesota. Fonte The New York Times

Da parte Repubblicana non si può ignorare la portata del ritiro di Nikki Haley: l’ex governatrice della South Carolina ed ex ambasciatore presso le Nazioni Unite durante l’amministrazione Trump, ha sospeso la sua campagna. Un modo formale ed edulcorato – nonché una comune scappatoia legale utile alla continua ricezione di donazioni – per annunciare il ritiro dalla primarie. Nel corso del Super Tuesday, la Haley ha vinto nello Stato del Vermont – uno dei più progressisti nell’Unione – e ha rimediato pressoché ovunque sconfitte di enormi dimensioni: era piuttosto prevedibile, quindi, un suo ritiro all’indomani del principale appuntamento elettorale del mese di marzo.
Ad onor del vero, la campagna della Haley – realisticamente priva di speranze di nomination già al momento del suo lancio – era apparsa virtualmente terminata all’indomani della sconfitta dell’ex governatrice nel suo home State, fatto avvenuto lo scorso 24 febbraio. Da allora, importanti big donors (su tutti i PAC legati al super-imprenditore Charles Koch e all’associazione conservatrice Americans for Prosperity) avevano interrotto le donazioni al comitato elettorale dell’inseguitrice di Donald Trump.

La Haley, tuttavia, non ha ancora dichiarato il suo sostegno formale per l’ex Presidente. Anzi, nel corso del discorso in cui ha annunciato la sospensione della campagna, ha rimarcato – seppur in modo più edulcorato rispetto a quanto osservato nelle scorse settimane – le sue perplessità circa la capacità di Trump nel raggiungere quella parte di elettorato repubblicano che ha scelto candidati più moderati e “tradizionali”, nonché l’enorme fascia di elettorato indipendente.

Cosa resterà, quindi, di questo noiosissimo Super Tuesday? Probabilmente l’immagine di due campagne elettorali che, pur ostentando una certa solidità, affrontano particolari difficoltà nel convincere una parte del proprio elettorato: Joe Biden e i progressisti, Donald Trump e i Repubblicani moderati. In tal senso, ancora più difficile e imprevedibile appare la corsa all’elettorato indipendente: non è da escludere che le elezioni di novembre portino una larga parte di quest’ultimo a votare per il candidato percepito come “meno peggio”. Ma la strada verso l’election day è ancora troppo lunga per fare previsioni.

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