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La crisi di Eagle Pass e un anno elettorale

Eagle Pass. Il lettore è autorizzato a non aver mai sentito nominare questa piccola città del Texas, primo insediamento americano sul Rio Grande fondato quasi due secoli fa dal generale William Leslie Cazneau durante la guerra messicano-statunitense. Non vi sono validi motivi per ritenere che questo insieme di case basse e di terra dorata, di sole, palme, acqua e speranza possa essere conosciuto dal grande pubblico: non vi sono scrittori che hanno dedicato i loro versi a questa città, né pittori che l’hanno ritratta, né attori o politici che vi sono nati.
Posta sulla strada che collega Ciudad de México e San Antonio, essa è divenuta, nei decenni, un avamposto di cultura chicana e latina nelle lande semi-desertiche del Texas sud-occidentale e, allo stesso tempo, un checkpoint sulla rotta che da Ciudad de México conduce a San Antonio. Nulla di più. La sua storia dipende unicamente dal suo essere una città di confine.

E se, scorrendo gli archivi di notizie, il nome di questa cittadina sulle rive del Rio Grande appariva come un luogo d’approdo di migranti che sceglievano la rotta messicana, oggi, sottoposta a forte stress numerico e al centro di controversie tra il governo federale e quello del Texas, essa assume un ruolo fondamentale per comprendere la politica americana degli ultimi anni e, verosimilmente, anche dei prossimi.Nel 2024, Eagle Pass è divenuta simbolo di un’America sempre più polarizzata, divisa tra Stati blu [ovvero, nel linguaggio della politica, Democratici] e Stati rossi, terreno di scontro di due visioni della politica vieppiù distanti e conflittuali. Al confine con il Messico, è divenuto maggiormente visibile uno scontro – da anni non più sotterraneo – tra un cospicuo numero di Stati e governo federale.
Alcuni commentatori più audaci hanno addirittura affermato che la controversia che la città sta affrontando potrebbe avere la stessa valenza che ebbe il bombardamento di Fort Sumter in South Carolina nel 1861: l’inizio di una guerra civile.

La vicenda è cavillosa, ma degna di essere approfondita: nel marzo 2021 il governatore del Texas Greg Abbott, repubblicano al terzo mandato e tra i più rilevanti critici dell’approccio alle questioni amministrazione Biden, annunciò una massiccia operazione di pattugliamento della frontiera, con il dispiegamento della Guardia Nazionale per ostacolare l’immigrazione clandestina e il traffico di droga. I numeri sembrerebbero giustificare, almeno in parte, l’atteggiamento del governatore dello Stato della stella solitaria: nel 2021, in effetti, il numero di ingressi illegali dal confine meridionale sfiorò i due milioni, con un aumento di più del 200% rispetto all’anno precedente. Tuttavia è bene ricordare che le operazioni avviate dall’amministrazione Abbott differiscono rispetto al normale pattugliamento e alle operazioni precedenti per costi (quantificati a 4 miliardi di dollari tra l’avvio e il 2023) e per l’approccio – quantomeno controverso – mantenuto dalla Guardia Nazionale (che, a discapito del nome, dipende unicamente dal governatore dello Stato) dalla legislazione e dalle forze di polizia texane.

Poche settimane dopo l’avvio dell’operazione, lo stesso Abbott dichiarava lo stato di emergenza, gettando le basi per la costruzione di un tratto di muro al confine e permettendo la deportazione di un cospicuo numero di persone immigrate illegalmente verso quelle città – in particolare verso Washington D.C. – che, per via della loro politica permissiva sono definite “città santuario”. Pochi mesi dopo, nell’estate 2022, due ordini esecutivi, dichiaravano il Texas sottoposto ad invasione – uno stratagemma forse semplicistico ma funzionale – autorizzando l’espulsione di chi entrato clandestinamente ed equiparavano i cartelli della droga ad associazioni terroristiche, intensificando le operazioni già in essere.
Fino alla metà di gennaio, quindi, il governatore del Texas ha tentato di combattere l’immigrazione clandestina attraverso una linea durissima e a suon di ordini esecutivi e dispiegamento di forze, ricevendo la solidarietà di molti colleghi repubblicani e, in alcuni casi, il dispiegamento di unità della Guardia Nazionale (come quella della Florida, inviata da Ron DeSantis già nel 2021).

Uomini della Guardia Nazionale texana in pattugliamento lungo il Rio Grande. Crediti: Wikimedia Commons.

Tutto regolare? In realtà no.
L’immigrazione è, in termini tecnici, una materia sulla quale la stessa Costituzione non si pronuncia in maniera esplicita. Ciò nonostante, la giurisprudenza tende a farla rientrare nelle materie di esclusiva competenza del governo federale, con costanti pronunciamenti in tal senso.
Essi sono basati, principalmente (ma non solo), sulla Clausola di naturalizzazione: «The Federal Government has broad constitutional powers in determining what aliens shall be admitted to the United States, the period they may remain, regulation of their conduct before naturalization, and the terms and conditions of their naturalization […] Under the Constitution, the states are granted no such powers; they can neither add to nor take from the conditions lawfully imposed by Congress upon admission, naturalization and residence of aliens in the United States or the several states».
Ed è questo il punto che ha generato la controversia legale in corso: mentre Abbott ha giustificato la sua posizione invocando prerogative emergenziali derivanti dalla supposta “invasione”, l’amministrazione Biden – e in particolare, il Segretario della Sicurezza Interna Alejandro Mayorkas – ha sostenuto la legittimità del governo federale nell’abbattere le barriere in filo spinato fatte costruire dal governatore del Texas e a far sgomberare la zona di Shelby Park, località di Eagle Pass trasformata nei mesi in una vera e propria area militarizzata.

L’allora Presidente Donald Trump e il governatore del Texas Greg Abbott a El Paso, al confine con il Messico, nel 2019. Crediti: Wikimedia Commons.

Tre settimane fa la Corte Suprema, ribaltando una sentenza della Corte d’Appello, ha dato ragione all’amministrazione Biden confermando, seppur con una maggioranza risicata, la legittimità delle richieste appena menzionate. Ciò non ha scoraggiato, però, Abbott e il Procuratore Generale del Texas Ken Paxton, che hanno dato ordine alla Guardia Nazionale di non arretrare da Eagle Pass. Nel mentre, quasi tutti i governatori Repubblicani hanno inviato unità della Guardia Nazionale lungo il Rio Grande, contribuendo ad esacerbare la situazione e creando un blocco anti-federalista

La situazione è in continua evoluzione e costituisce, forse, l’elemento di maggior interesse in questo anno elettorale. La divisione politica in cui si trovano gli Stati Uniti non ha precedenti nell’ultimo secolo e gli echi del “divorzio nazionale” sembrano sempre più insistenti, alimentando continuamente le tensioni tra Stati repubblicani e governo federale .
Eppure, per quanto complessa e problematica e per quanto le sue implicazioni sembrino gravi, non bisognerebbe cadere nell’errore del ritenerla l’unico tema che determinerà le sorti della prossima campagna elettorale. Vorrei, anzi, far mie le parole di un amico appassionato di politica americana: «Forse non dovremmo chiederci quanto la crisi di Eagle Pass influirà sulle prossime elezioni, ma come e quanto le prossime elezioni influiranno sulla crisi tra States rights – o supposti tali – e istituzioni centrali».

Il blocco “anti-federalista”. Mappa basata sulle informazioni disponibili al 14 febbraio.

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