Interviste

Letizia Battaglia: fotografie che hanno fatto la storia

di Alice Parola e Danny Raimondi

 

Far parte della redazione di un giornale dà infinite possibilità, una di queste è stata per me intervistare Letizia Battaglia, fotografa e donna ancora prima, che ha vissuto e documentato attraverso la sua macchina fotografica una città come Palermo, dominata dalla mafia. La incontriamo poco prima di una conferenza al bar universitario. La riconosco subito dai capelli rosso fuoco e dalla sigaretta che detterà il ritmo della nostra intervista.

Rompiamo il ghiaccio con una domanda classica: cosa l’ha spinta ad avvicinarsi alla fotografia?

È successo tutto quasi per caso. Lavoravo con il giornale “L’Ora” di Palermo, un quotidiano comunista, come giornalista freelancer. Poi mi sono trasferita a Milano e ho iniziato a proporre i miei lavori da freelancer. Lì hanno iniziato a chiedermi foto e mi sono dovuta comprare una macchinetta per guadagnarmi il pane. La passione è arrivata dopo. Sono tornata a Palermo e ho condotto un servizio fotografico nel mio quotidiano e per 19 anni ho fotografato Palermo. Sono così diventata più brava, più esperta, ma anche più addolorata.

Mentre cosa può dire della prima foto che ha scattato e delle figure che l’hanno ispirata a continuare?

Le mie prime foto le ho scattate a Milano e non ero brava –ammette– Poi stranamente ho incontrato Pierpaolo Pasolini durante un dibattito e ho scattato delle foto bellissime, come se fossi stata una vera fotografa. Dopo anni è come se lui fosse vivo, la fotografia ha questa bellezza.

Che cosa l’ha spinta dopo i primi anni a Milano a dedicarsi completamente alla fotografia?

Palermo, la mia terra, mi ha richiamata. Era straordinario per me come donna, allora, fare la fotografa e straordinario era documentare quello che stava avvenendo. Piano piano ho amato anche la fotografia, ma inizialmente mi interessava solo documentare, documentare in ogni modo quello che stava avvenendo, perché il mondo sapesse.

E come donna com’è stato vivere quegli anni e lavorare in due ambiti, quello politico e fotografico, dominati dagli uomini?

Specialmente a Palermo… –sorride amaramente prima di proseguire– per una donna era complicato fare un po’ di cose, e fotografare era una di quelle. La fotografia era stata sempre nelle mano degli uomini, specialmente nei quotidiani. In Italia non esisteva una fotografa che lavorasse nei quotidiani. È stato molto complicato, non ero credibile e mi respingevano sempre tutti. Un giorno ho imparato a gridare. Ho gridato. E sono stata ascoltata e rispettata dalla polizia, dai colleghi. Sono così riuscita a fotografare quello che fino ad allora avevano visto gli uomini, ma essendo una donna il mio punto di vista era diverso. Certe volte per me era più facile entrare nelle case di donne e bambine, grazie ad un modo diverso di approcciarsi, più gentile e discreto. Ho avuto svantaggi iniziali, ma ne ho saputo trarre dei vantaggi. Io sono sempre andata avanti comunque, la paura non mi ha mai fermata.

La foto utilizzata per la locandina dell’incontro che terrà a breve è proprio di una delle donne che ha ritratto, rappresentata con gli occhi chiusi. Che importanza ha avuto per lei questa foto e cosa voleva trasmettere?

Mentre stavo fotografando questa donna, tutto intorno a noi era terribile. In quei giorni avevano ucciso i giudici Falcone e Borsellino, due persone straordinarie che sapevano davvero come lottare. Lo sguardo della donna, non era esattamente quello che stavo cercando, lo volevo più intenso, e mi è quindi venuto d’istinto chiederle di chiudere gli occhi. Così, era molto più forte e rispecchiava molto di più quei giorni. Non è tra le mie preferite come foto in sé ma mi interessava il messaggio: lo sguardo di una donna che come molte altre ha sofferto, a cui hanno ammazzato un marito giovane e bello.

Le sue fotografie sono state esposte in musei importanti, come al Maxxi di Roma. Come è riuscita ad affiancare alle foto d’informazione anche l’arte?

Me lo sono sempre chiesta anch’io. Credo che le mie foto entrando in un museo hanno un po’ perso la loro funzione di denuncia perché è come se fossero state fagocitate da un luogo artistico che non è propriamente visto come un luogo di combattimento. Sono diventata un’artista mio malgrado, io non ero un’artista. Ero una persona che in qualsiasi modo voleva combattere la mafia. Con la macchina fotografica, con le scelte di vita, le persone con cui sono entrata in contatto, con tutto. Ora nei musei ho successo, ma nella mia visione questo toglie un po’ di forza al mio lavoro.

Lei ha sempre lottato, qual è stata l’evoluzione della parola “lotta” nelle diverse fasi della sua vita?

Penso ci sia stata non un’evoluzione ma una involuzione. Penso che oggi si lotti di meno, la lotta dovrebbe essere in mano ai giovani, ma credo che abbiano meno coraggio di un tempo. Penso ci sia stata una generazione di mezzo tra la mia e la vostra che è stata debole, non vi ha insegnato a lottare. Però posso solo sperare che le cose cambieranno.

Cosa consiglia a un ragazzo che vorrebbe fare il suo lavoro, che vorrebbe impegnarsi in qualcosa che lo appassiona?

Disciplina. Attenzione. Cultura. Guardare film. Guardare fotografie. Non essere vanitosi. Andare avanti nella propria ricerca e avere un progetto. Un progetto di vita. Perché tu fotografi sulla base delle tue esperienze di vita.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *