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“Indivisibili” (2016), di Edoardo De Angelis

Indivisibili (2016) è un film diretto da Edoardo De Angelis; parla di una storia al limite del verosimile, a volte decisamente assurda, così paradossale da essere meravigliosamente attuale; pare far da specchio ad una parte assolutamente comune del vivere: l’approfittare, avidamente, incuranti di chi siano le vittime, per poi ritornare immancabilmente al punto di partenza. Come Peppe (Massimiliano Rossi), assuefatto al gioco delle macchinette, o Titti (Antonia Truppo), troppo alterata dal fumo dell’hashish per cercare di proteggere quel poco che, uscito da un conglomerato di paura e miseria, s’era salvato.

Il soggetto è di Nicola Guaglianone, e la storia fila a tal punto da non rendersi conto che è già finita. Non per nulla, il film vale all’autore – ed a Barbara Petronio ed Edoardo De Angelis – un David di Donatello per la miglior sceneggiatura originale (2017). La pellicola è stata girata a Castel Volturno, in provincia di Caserta; spicca una fotografia volutamente grigia, praticamente monocromatica, adattata ad un paesaggio diroccato, quasi fosse una zona di guerra. Il luogo che fa da sfondo alla storia acquisisce i tratti di un palcoscenico vuoto, sul quale girano in cerchio pochissime maschere, osservate con occhio attento, un po’ beckettiano, forse.

La forza della pellicola sta proprio nella capacità di rappresentare i pochi personaggi come delle maschere, a volte un po’ buffe, che prosciugano due ragazze, sorelle siamesi: Desy (Marianna Fontana) e Viola (Angela Fontana), sfruttando il loro talento e la loro disgrazia. Sono proprio loro a farsi portatrici del senso profondo che fonda il soggetto: due giovani unite dalla nascita da un lembo di carne, particolarmente irrorato da vasi sanguini, capaci di far provare le medesime sensazioni una all’altra; e che, pur avendo un handicap di questa portata, pur essendo sole e giovanissime, sono le uniche a muoversi, a cercare di vivere secondo le proprie scelte. Tutti gli altri sono manichini che tentano di stare a galla, naufraghi pronti a tirar giù il compagno, in preda al panico ed alla disperazione; ed è proprio quello che succederà alle due sorelle, una volta sfibrate dalle sanguisughe avvinghiate a quel lembo di carne.

La figura di Don Salvatore è a dir poco magnifica: un prelato dall’aspetto misterioso, come fosse una rockstar, circondato da donne che si atteggiano a geishe. Il prete intrattiene malcapitati immigrati dalla pelle nera, salvandoli – dietro il pagamento di un’offerta alla sua santissima persona – da quella che lui definisce “povertà interiore”.

La musica, firmata da Enzo Avitabile vincitore del David per il miglior musicista –, è perfetta: rappresenta al meglio quella cultura contraddittoria propria della regione campana, capace di donare al mondo tanta arte e bellezza quanta miseria ed orrore.

Ammirabile è l’interpretazione delle sorelle, in particolare quella di Marianna Fontana, che risulta essere – fin dall’inizio – la più forte fra le due, adatta a prendere le decisioni essenziale per la sopravvivenza. È lei che decide di approfondire con il Dottor Fasano (Peppe Servillo), ed è sempre lei che obbliga Viola a scappare, nella speranza di trovare ciò che cerca. Viola, a sua volta, schiantandosi tanto forte contro il muro d’ipocrisia di uomini pronti a tutto per un vezzo, sarà obbligata a prendere in mano la sorte di entrambe le loro vite.

È così che Guaglianone vuole dipingere questa storia, attraverso i contrari di tutto: un prete che predica la povertà ed incita ad elevarsi dietro ingenti offerte – all’ombra di una Madonna di gesso –, un uomo che – in ogni sua azione – sostiene di fare il bene della sua famiglia, una madre tossicodipendente che pare essere l’unica a comprendere, e due giovani ragazze – unite nel corpo – che si mostrano per quello che sono: forti e deboli insieme.

Il cinema d’autore italiano rimane sempre fonte d’ispirazione, e, al di là della storia, così magnificamente scritta, v’è tutto un corpo fatto di fotografia (Ferran Peredes Rubio), musiche e scenografia (Carmine Guarino) decisamente appropriato, con un cast di attori non molto conosciuti, ma capaci e credibili. Rimane quindi d’augurarsi che questo tipo di arte sia sempre più sorretta dalla macchina del cinema italiano.

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