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La doppia identità di Vivian Maier al Castello Visconteo

Intorno alla figura di Vivian Maier (1926-2009), fotografa Americana attiva dagli anni ’50 del Novecento, aleggia un’aura di mistero: di lei non si sa con certezza davvero molto, se non che, nata a New York da un’immigrata francese e un americano di origine austriaca, per tutta la vita si dedicò alla professione di bambinaia presso famiglie della città natale e specialmente di Chicago. L’attività di fotografa fu per lei poco più che un hobby nonostante l’enorme quantità di scatti, negativi e rullini non sviluppati che la donna ha lasciato in vari depositi di stoccaggio e che vanno oggi a costituire il diasporico ma folgorante archivio di Vivian Maier. Un archivio di opere che forse la stessa autrice non avrebbe voluto divulgare dal momento che per decenni sono state da lei stessa nascoste e custodite con grande riservatezza.

Soprattutto per questo, allora, la scoperta della sua opera è tardiva; per la maggior parte postuma, e ha inizio nel momento in cui il giovane John Maloof, solo nel 2007, si imbatte nel contenuto di un box espropriato che si rivela colmo di materiale fotografico realizzato da ignoti. Maloof si mette alla ricerca della misteriosa autrice e intanto si occupa di diffondere le fotografie recuperate, cercando nel frattempo di ricostruire la vita di Vivian Maier e realizzando successivamente un fortunato documentario a proposito della sua indagine (“Finding Vivian Maier”; 2013).

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La fama di Vivian Maier oggi è indiscussa e la sua opera ha sollevato grandi questioni tra molti studiosi e appassionati, anche se la misteriosa protagonista non ha potuto godere del proprio stesso successo (di cui forse, nemmeno si sarebbe interessata in realtà) né spiegare più intensamente il proprio lavoro al pubblico.

L’ opera di Vivian è racchiusa nella definizione di “street photography” anche se spesso esce da queste stesse coordinate che forse risultano un poco strette alla sua personalità fotografica: sebbene sia corretto affermare che la sua ricerca visiva si sia svolta per le strade, è anche vero che riprendendo con cura artistica qualunque cosa le colpisse lo sguardo, la sua attenzione all’evento minimo, raccolto e documentato con lo sguardo analitico e allo stesso tempo partecipato del soggetto, è in grado di costituire una vera e propria narrazione diaristica del tempo americano in cui la Maier si è trovata a vivere e della fotografa stessa. La maggior parte delle sue fotografie è costituita da ritratti di passanti e bambini o autoritratti realizzati con specchi e vetrine di negozi usate come superfici riflettenti in cui far comparire il suo sguardo serio, la sua ombra, la sua figura con le mani a sostegno della macchina fotografica (la fedele Rolleiflex: un apparecchio molto amato dai fotografi a lei contemporanei che monta rullini da 120 mm il cui formato d’immagine è perfettamente quadrato), oggetti abbandonati e vedute delle strade della città. Da questi scatti traspare un’innata curiosità verso la varietà dell’esistente e un’indagine profonda della condizione umana a partire dal sé per affacciarsi a uno sguardo di confronto con l’altro. Nell’obiettivo della Maier, la luce è sempre perfettamente calibrata e l’armonia compositiva evidente. Non si tratta di fotografie scattate in modo distratto o superficiale. Si sa infatti, attraverso testimonianze di chi l’ha conosciuta, che la donna studiava attentamente il soggetto da fotografare per parecchi minuti prima di scattare per un solo tentativo e subito allontanarsi alla ricerca della ripresa successiva con una percentuale di successo davvero notevole.

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Le espressioni dei passanti ritratti da Vivian Maier sono sguardi parlanti: da quello della bambina in mezzo busto a braccia conserte e lo sguardo pieno di lacrime, al sopracciglio serio negli autoritratti, passando per il volto nascosto di un uomo seduto a terra, esse sanno farsi testimoni della coscienza, della personalità e varietà delle condizioni umane verso cui Vivian aveva uno spiccato interesse (resta da definire se conscio oppure no) mentre le pose dei protagonisti sono estremamente plastiche apparendo quasi preparate appositamente per il ritratto grazie alla sapiente capacità di composizione.

Presso le Scuderie del Castello Visconteo di Pavia è in atto un’esposizione di sue opere (dal 9 febbraio al 5 maggio 2019) che vanta più di cento tra fotografie e filmati in super 8 mm attraverso cui si cerca di esplorare la storia dell’artista, la sua vita e l’interpretazione delle opere partendo anche dai mezzi da lei utilizzati (interessantissimo lo spazio dedicato alla Rolleiflex: modalità d’uso e sue potenzialità), ma anche cercando di concentrarsi sulla vicenda della scoperta dell’artista con la proiezione del documentario firmato BBC “Vivian Maier – Who took Nanny’s pictures” e l’intenzione di immettere il visitatore ancora più nell’idea stessa dello sguardo da parte dell’artista grazie all’allestimento anche di una piccola sala di specchi, che fa percepire ancora meglio il valore dell‘immagine riflessa per Vivian.

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D’altronde anche la fotografia eletta a copertina della mostra è significativa: un autoritratto in cui Vivian Maier compare dai fianchi in su, riflessa in una vetrina con la sua Rolleiflex tra le mani. Sembra una perfetta immagine di presentazione dell’artista stessa, che appare divisa tra un lato in ombra e uno illuminato, come a sottolineare le due identità che le corrispondono: una vita vissuta a prendersi cura dei figli degli altri in contrapposizione alla sua luminosa identità d’artista che oggi la rende famosa in tutto il mondo.

Federica Defendenti

Studio Lettere Moderne con indirizzo di Discipline dello Spettacolo all'Università di Pavia. Sono caporedattrice della rivista "Inchiostro"; redattrice per "Birdmen Magazine"; appassionata di poesia, musica, cinema e arti visive.

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