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La Chimera è un film filosofico: per davvero

Domenica 21 gennaio 2024, sono appena uscito dal Cinema Beltrade, dopo la proiezione mattutina delle undici.
Ho appena visto La Chimera, di Alice Rochwacher, un film che inseguivo da tempo. Spesso si vedono giornalisti
scrivere frasi come: «Il film di cui non sapevamo di avere bisogno». Sorrido: io invece sapevo di averne e mi
ritrovo col cuore stracolmo di gioia. Mi dico che ne voglio parlare con gli amici, che voglio scriverne… è passato
un po’ di tempo, e adesso lo faccio.

Siamo d’accordo: il cinema italiano ha trovato in Rochwacher una forza espressiva nuova, un’intensità
e una profondità che ci fa tanto bene. Ora però non parliamo di distribuzioni, di numeri o di incassi,
che sono importanti, ma non interessanti. Piuttosto, commentiamo un’opera d’arte: non è certo
importante farlo, ma (forse) sarà interessante. La Chimera si candida ad essere uno di quei misteriosi
film sul liminale, come Shining di Kubrick. Chi ha visto entrambi i film sa che non si somigliano per
niente, ma per intenderci: quei lunghi corridoi, quel grande hotel sperduto fra le montagne, erano
luoghi con una forte carica emotiva, che incuriosivano, e portavano a fare riflessioni sullo spazio,
inteso come caratteristica nell’arte così come nella società. Anche in questo film lo spazio assume un
aspetto centrale, perché i luoghi abitati dai personaggi sono come sospesi, hanno confini invisibili,
sono sfumati tra la realtà e il sogno. Ma cerchiamo di vederci più chiaro.

La Chimera – ha dichiarato la regista – conclude una trilogia iniziata con Le Meraviglie, e ripresa con
Lazzaro Felice. Già in quest’ultimo apparivano chiari molti dei temi cari alla poetica della cineasta
toscana, sviluppati ulteriormente nella sua terza fatica: le tradizioni perdute, i conflitti di classe, la
brama di ricchezza, l’inesorabile globalizzazione, l’elemento magico, il mistico e il misterioso, così
come la volontà di trovare una continuità tra il passato e il presente, raccontando storie dal gusto
universale. In più, il film giocava molto sulla dimensione spaziale: non solo emergeva il rapporto tra la
realtà rurale e quella cittadina, ma la collocazione era volutamente ambigua. Il tempo della narrazione
era intuibile ma non specificato, e qualche coordinata geografica si poteva carpire (lo scenario
campagnolo del parco naturale dell’Inviolata, e poi Milano). Tuttavia, quegli stessi spazi erano fittizi: la
tenuta dove si svolge la prima parte del racconto è fuori dal mondo, e la metropoli della seconda parte
è il mondo, ma entrambe sono volutamente vaghe e solamente accennate. Nel suo ultimo lavoro,
Rochwacher restringe il campo: i temi rimangono gli stessi, trattati – se possibile – con più maestria e
delicatezza, ma essi richiedono un’analisi più profonda. A questo proposito, un concetto filosofico
potrebbe esserci d’aiuto, quello di “eterotopia”.

Il concetto di eterotopia (dal greco τόπος e ἕτερος, letteralmente “luogo altro”) è stato sviluppato in
filosofia dal pensatore francese Michel Foucault, attivo nella seconda metà del Novecento. Nella sua
parte di produzione dedicata allo spazio, lo studioso individua dei “luoghi altri”, assolutamente
differenti, in relazione e allo stesso tempo in contraddizione con tutti gli altri luoghi possibili: le utopie
e le eterotopie. Le utopie sono più conosciute: sono un perfezionamento di luoghi già esistenti, o il
contrario di essi. In ogni caso, il risultato è qualcosa che non si può trovare su nessuna cartina. Utopia
è un luogo immaginario, un sogno, o appunto, una chimera. Viceversa, quando l’irreale si fa reale, si
materializza, ecco che abbiamo le eterotopie: perfettamente localizzabili, ma allo stesso tempo al di
fuori di ogni luogo. A questo proposito sarebbe utile menzionare alcuni dei principi individuati da
Foucault per l’analisi delle eterotopie; in totale sono sei – una sorta di manualetto di istruzioni – ma
abbiamo pietà, e perciò ci soffermiamo solo sui primi tre.

I principi numero uno e due sono di carattere introduttivo, utili per capire che la presenza di eterotopie
è una costante universale di tutte le società e che ogni società può, col passare del tempo, farle
scomparire o riapparire. Nelle società moderne, eterotopie (“di deviazione”) sono le cliniche
psichiatriche o le carceri: luoghi concreti ma altri, separati, riservati ad individui che deviano dalle
norme sociali. Le tombe e i cimiteri, invece, hanno visto mutare il proprio status di luoghi altri. Gli
etruschi, ad esempio, credevano fermamente alla vita oltre la morte; perciò, le loro tombe erano
ornate di oggetti preziosi, utili, o ai quali i defunti erano affezionati. “Non si sa mai”, probabilmente
pensavano. “Grazie tante”, pensano invece i protagonisti de La Chimera, Arthur (ex archeologo
interpretato da Josh O’Connor) e la sua banda di tombaroli. L’idea del cimitero come luogo da visitare,
curiosamente, è invece legata alla secolarizzazione delle società: quando abbiamo cominciato a
dubitare dell’immortalità dell’anima, questi luoghi sono diventati più rilevanti, perché ultime tracce
delle nostre esistenze. Ritornando ai principi: il terzo suggerisce come le eterotopie abbiano «il potere
di giustapporre in un unico luogo reale, diversi spazi che sono tra loro incompatibili»: è il caso dei
teatri o dei cinema, dove ci rechiamo fisicamente per immergerci in infinite possibilità di altri luoghi
rappresentati – e questo ci interessa perché, con film come La Chimera, si ha l’impressione di un
sistema di scatole cinesi di eterotopie.

Degli indizi ci permettono di localizzare la storia de La Chimera nel tempo e nello spazio. I vestiti, la
musica e le automobili ci parlano degli anni Ottanta. Le necropoli etrusche, i paesaggi e il borgo
immaginario di Riparbella fanno pensare ad un’area dell’Italia centrale che si affaccia sul Mar Tirreno.
Sappiamo poco anche sui personaggi, che semplici, genuini e sognanti creano un mosaico
interessantissimo. Il protagonista, il misterioso inglese Arthur, usa il suo sesto senso e le sue
conoscenze archeologiche per rintracciare antichi tesori da trafugare, vivendo alla giornata, spaesato
e spento dopo la morte della sua amata Beniamina. Appare, il film, come un susseguirsi di eterotopie,
che sembrano essenziali perché è in questi luoghi che la trama progredisce. Le tombe profanate dalla
scanzonata banda, come già accennato, sono luoghi altri per definizione, e il cuore pulsante della
vicenda. I tombaroli violano questi spazi per il denaro, mentre Arthur tentennante sembra farlo solo
per provare un sentimento ormai perduto. Non è un caso che in un treno – che l’antropologo Marc
Augé definisce “nonluogo”, analogamente a Foucault che lo inserisce tra le “regioni di passaggio” –
Arthur abbia i suoi incubi, delle visioni che lo turbano e che lo decidono a cambiare vita. Così, quasi
paradossalmente, in un luogo transitorio e privo di significato stabile, l’uomo ritrova sé stesso. Non è
un caso, tantomeno, che su una nave Arthur abbia la sua epifania quasi Joyciana… ma qui ci fermiamo
per non spoilerare troppo. Due parole sulla nave: essa è, per Foucault, l’eterotopia per eccellenza, «un
frammento di spazio galleggiante, un luogo senza luogo», «il più grande serbatoio d’immaginazione».
Tutti questi luoghi sospesi segnano quindi il passaggio da una condizione esistenziale all’altra, e sono
al contempo il motore della storia, che grazie a questi assume la natura che è tipica delle favole o
delle fiabe, l’universalità.

Ecco, quindi, il perché del titolo: La Chimera non parla di filosofia, ma ce la si ritrova dentro per
davvero.

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