Attualità

Con più soldi si farebbero davvero più figli?

Lo studio demografico come termometro del benessere

Il problema demografico è ormai un fatto noto. Non soltanto appannaggio di studiosi e operanti nel settore, il fenomeno si mostra con tutta evidenza anche alla popolazione disinteressata al tema. Non occorre infatti studiare il fenomeno sui libri per osservare le scuole che si svuotano e le pensioni che si rimpiccioliscono. Di fronte a queste difficoltà il conflitto intergenerazionale ne giova, acuendosi e dimostrando i chiari squilibri di una società europea terribilmente anziana. 

Non è nostra intenzione presentare il tema come uno scenario apocalittico contraddistinto dalla sola negatività. Possiamo trattare la questione come uno dei molteplici esiti della storia, in questo caso frutto di decenni di sviluppo produttivo.

Affrontarlo risulta fondamentale vista la natura del fenomeno: le proiezioni demografiche sono infatti alla base di moltissime scelte di impianto politico. La demografia è utilizzata come un termometro. Un termometro che può misurare il benessere di una determinata popolazione attraverso lo studio del suo mutamento, in termini di quantità ma anche di qualità

Riduzione della popolazione o squilibrio tra le generazioni?

Uno dei dati cruciali evidenziati dagli studi dei demografi è quello del tasso di dipendenza, ossia il rapporto tra la popolazione inattiva e quella attiva. Consideriamo come parte attiva la fascia di popolazione che va dai 15 ai 65 anni, ovvero la quota di popolazione potenzialmente lavoratrice. Un indice positivo si legge quando la popolazione in età da lavoro supera in buona parte quella inattiva, non autosufficiente, costituita dagli under 15 e dagli over 65. Un risultato di questo tipo significherebbe banalmente l’aumento della produttività e dell’innovazione, dando per scontato tuttavia che quella quota di non autosufficienti contenga possibilmente più giovani rispetto ad anziani. 

Un numero di lavoratori alto corrisponderebbe ad opportunità di sviluppo e di crescita economica; mentre d’altra parte un minor numero di anziani necessiterebbe di una spesa pubblica previdenziale minore. 

Tuttavia il segnale di allarme che lampeggia presso gli istituti statistici europei palesa il quadro inverso. Un numero sempre più grande di persone è destinato a dipendere da una quota sempre più piccola di lavoratori. 

Il problema demografico non è quindi dato dalla diminuzione degli individui di una popolazione di per sé, ma dallo squilibrio tra le generazioni. La quota più significativa della popolazione dipendente è infatti quella anziana. 

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La piramide per età

La crisi del welfare state

Viene così messa a rischio la sostenibilità dei sistemi pensionistici, dei servizi sanitari nazionali e, più in generale, del welfare state. Insomma tutte quelle singolarità che hanno portato alla nascita dello Stato sociale, ora minacciato dalla sua stessa struttura interna. 

Problemi semplicissimi da esporre, complicatissimi da risolvere. La semplificazione è la strada più breve: invitiamo le coppie ad avere più figli. Sussidi e incentivi di natura economica porteranno le famiglie ad allargarsi, diffondendo la voce di quanto sia ottimale procreare per la società. 

Ecco, la questione non è proprio riducibile in questi termini. 

Le famiglie non fanno più figli, quante volte abbiamo udito questa frase. Peccato che, scucita dal contesto, sembra prefigurare una società di coppie non amanti dei bambini. Coppie che farebbero di tutto per non responsabilizzarsi; in fondo c’è il lavoro che responsabilizza già abbastanza. D’altronde avere dei figli costa, incide decisamente sulla bilancia economica di una coppia. Perciò uno si chiede: chi me lo fa fare?

Tuttavia ci si dimentica, forse anche volutamente, che il processo è culturale. Se oggi le coppie non pensano ad un futuro roseo con i propri bambini non è perché in loro presenza non saprebbero come arrivare a fine mese. O meglio, non solo per questo ?

Quanto incide l’economia sulla scelta di avere dei figli?

Non pensano ai figli perché la società è cambiata radicalmente. Ciò che ha portato alla situazione odierna è una trasformazione culturale, prima ancora che economica. 

Il tasso di fecondità italiano, ad esempio, è diminuito nel tempo nonostante la crescita del reddito pro capite. Il motivo per cui si fanno meno figli non è dato dal reddito medio dell’individuo adulto, ma piuttosto dal dato anagrafico che preannuncia l’inizio della fantomatica vita adulta, dalla sicurezza emotiva e di prospettiva da cui questa è accompagnata. 

Del resto gli studi dei demografi hanno da sempre dimostrato che uno status socio-economico elevato è accompagnato dalla riduzione più o meno proporzionale del tasso di fecondità (numero medio di figli per donna). Ciò non vuol dire che non sarebbe auspicabile vedere nel nostro paese un sistema più completo di Asili Nido o di politiche espansive di sostegno alla genitorialità. Non dovremmo parlare dell’espansione di queste misure come di un privilegio, di un’amplificazione del ruolo della Stato sociale. Piuttosto le considererei come obiettivi concreti finalizzati al benessere collettivo e sociale, tenendo sempre bene a mente che difficilmente porteranno ad una inversione di tendenza, perché potrebbero non avere effetti rilevanti in questo senso. 

Una tendenza globale ad aver meno figli

A Singapore vengono erogati diverse migliaia di euro per nascita, che crescono con l’arrivo del secondogenito, oltre a notevoli agevolazioni per l’acquisto di abitazioni sussidiate. Eppure, il numero medio di figli per donna è pari a 1, lontanissimo dal tasso che eviterebbe il declino demografico. 

Siamo società vecchie non perché troppo ricche e di certo non perché troppo povere. Inseriamo ad esempio tra i paesi destinati ad invecchiare nazioni come il Giappone, la Corea del Sud, ma anche la Germania, l’Inghilterra e la Danimarca. Stati con un PIL pro capite superiore alla media, ma con un tasso di fecondità per donna minore di gran lunga ai 2 figli, misura indicativa che significherebbe la sostituzione tra generazioni.

Questa correlazione tra la crescita economica e la conseguente riduzione delle nascite viene spiegata dalla teoria della transizione demografica. Questa teoria spiega come ogni popolazione nella storia affronti diverse tappe della sua evoluzione demografica. La transizione comincia da una situazione in cui sono l’alta mortalità infantile e la bassa aspettativa di vita a mantenere numericamente in equilibrio la popolazione. Successivamente la riduzione della mortalità a tutti i livelli di età consente alla popolazione di crescere moltissimo fino a quando anche la fecondità tende a convergere ai sempre più bassi tassi di mortalità. La tendenza della fecondità a diminuire una volta raggiunti bassi livelli di mortalità può essere spiegata riferendosi banalmente a riflessioni utilitaristiche. 

Se una famiglia sa che la metà dei suoi figli rischia di non raggiungere la maggiore età, allora deciderà di farne il doppio. Lo studioso demografo Gary Becker spiegava questo concetto con la teoria dei costi-opportunità. Se un secolo e mezzo fa una famiglia della classe medio-bassa avrebbe puntato sulla manodopera dei propri figli, sulla loro presenza per il sostentamento economico, oggi invece si preferisce scommettere sulla qualità, piuttosto che sulla quantità. L’educazione è divenuta una discriminante troppo importante per la ricerca di un posto di lavoro. L’investimento scolastico richiede delle scelte, le quali portano spesso a decidere di avere meno figli, ma che possano essere cresciuti nel migliore dei modi, potendo offrire opportunità più vantaggiose.

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Tasso di fecondità per donna in Italia, in Europa e nel Mondo

Le cause della crisi sono le stesse conquiste del boom economico 

Ma non è solo un discorso di preferenze individuali. La fase del boom demografico che ha colpito i paesi dell’Europa Occidentale nel secondo dopoguerra è stata accompagnata da un miglioramento rilevante delle condizioni di vita, in particolare delle condizioni igienico-sanitarie. Il progresso materiale è stato seguito dallo sviluppo morale della società: il processo di empowerment femminile e la riduzione del lavoro nelle fasce di età più giovani sono tutte conquiste sociali e morali che hanno sconvolto la nostra società. Riconoscibili come motivo di progresso, sono anche causa buona del calo della fecondità. Causa a cui non siamo disposti a rinunciare. 

Sarebbe quantomeno semplicistico auspicare ad un ritorno al ruolo della donna come madre in virtù della rinascita di una società familiare tradizionalista. E’ impossibile, oltre che non desiderabile.

Giunti a questo punto, considerato come la fine di quel percorso di transizione demografica, è la riduzione delle nascite a mantenere in equilibrio popolazioni che si aspettano di vivere per un numero di anni sempre maggiore. E’ uno schema che si mostra in tutta la sua evidenza negli stati europei che hanno vissuto il boom economico negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Ma potremmo tranquillamente allargare il campo a paesi che tendiamo a giudicare come meno sviluppati, dove pensiamo che si viva molto meno bene.

L’Iran (1,6), la Russia (1,5), la Cina (1,3) sono tutte nazioni dove il tasso di nascite per donna è distantissimo da quel 2 che corrisponderebbe alla riproduzione della popolazione di generazione in generazione. E la storia ci insegna come per queste popolazioni il processo di transizione è stato ancora più veloce. Consideriamo che in paesi come la Cina e l’Iran il tasso di nascite per donna negli anni ‘70 era circa di 6 figli, mentre negli stessi anni negli stati europei stentava a superare i 2,5. 

La nostra società ci porta a disattendere l’importanza della famiglia e dei figli

Si tratta dunque di processi difficili da manipolare e soprattutto complicatissimi da prevedere. Questo implica che difficilmente una ricchezza maggiore può bastare a cambiare le pianificazioni familiari, soprattutto su larga scala e in particolar modo in questo lembo di terra del mondo, dove il fenomeno dell’individualismo ha effetti su tutte le materie di studio delle scienze sociali.

Siamo società con pochi figli perché viviamo essenzialmente di economia e di benessere. La sicurezza economica non è solo un obiettivo ma un fondamento delle proprie scelte di vita. Non scegliamo di non fare figli solo perché costituirebbero un costo ingente, scegliamo di non fare figli perché non ci pensiamo troppo, perché non lo riteniamo più così cruciale nel corso della vita. Forse più che la mancanza di soldi dovremmo denunciare la mancanza di tempo. 

Qualsiasi massima aspirazione individualista non può vedere di buon grado la riflessione che necessiterebbe una scelta di questo tipo. Alla riflessione in merito al figlio potrebbe seguire addirittura l’interruzione della carriera. Carriera caratterizzata da cambi continui di ruolo e di mansioni. Ulteriore fonte di insicurezza, impossibile da schivare.

Per quanto sia appagante vedere allargarsi il proprio nucleo familiare è innegabile che questo sia potenziale origine di incertezze

Alla metà del secolo scorso le famiglie europee affrontavano la questione in modo diametralmente opposto. Non tanto perché i valori sono cambiati, ma perché è cambiata tutta la cornice che racchiude l’orizzonte valoriale. Anche decidere di allargare una famiglia è un valore, un valore inestimabile. Ma se questo ha perso la sua priorità nelle vite quotidiane delle persone, vorrà dire che qualcos’altro ha preso il suo posto. 

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