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Il Brasile in “Aquarius”

Il Chiostro del Vittadini, in occasione della rassegna estiva “Cinema sotto le stelle”, si riempie della sonorità accattivante del portoghese. In Aquarius (2016), scritto e diretto da Kleber Mendonça Filho, la musica, co-protagonista della suadente ed energica Sônia Braga, fluisce in modo diegetico dagli apparecchi che resistono al sorpasso veloce della modernità. I vinili accompagnano la storia del condominio azzurro cielo, ormai disabitato, a eccezione di un appartamento, un po’ fatiscente e scomodo, che ha ospitato un domino di feste di compleanno e malattie, l’infrangersi delle onde dell’oceano. Le note di Hoje, album di Taiguara del 1968, si espandono in un soggiorno sopravvissuto agli anni, in apparenza identico, con un mobilio pressoché intatto; eppure, i colori caldi e avvolgenti delle danze d’apertura si stemperano nel bianco abbacinante di una vita solitaria: Clara, ormai vedova da tempo, abita l’Aquarius godendo della sola compagnia di una governante ormai confidente, ma non sembra soffrirne. In una routine di yoga, bicchieri di rosso e virtuosismi di archi, ne conosciamo la vicenda suddivisa in un trittico, mentre il progresso bussa con insistenza alla sua porta, chiedendole di abbandonare l’analogico, la consuetudine delle foto dei cari nel portafogli e, soprattutto, il “palazzo fantasma”. Comincia una lotta senza tregua tra un giovane rampante, che progetta di edificare un grattacielo da sogno, e una donna ostinata, una combattente che rifiuta di vendere.

Come nel racconto di Cortázar Casa occupata, l’impressione è che Clara venga inesorabilmente scacciata da impostori che lentamente si insinuano negli angoli vuoti del condominio, occupando le scale, usurpando il silenzio prezioso, avanzando incessantemente contro l’ultima sentinella rimasta. Clara resiste e si oppone, e saremmo indotti a sostenere questa colonna sonora delle cause perse; tuttavia la tempra della donna ce la rende inaccessibile, indecifrabile. E’ difficile entrare in empatia con lei: è una signora rancorosa, dura e austera, impenetrabile; solo uno sguardo indiscreto può sbirciare nei rari momenti di fragilità che la colgono, quando ci sembra che l’appartamento non sia soltanto la materializzazione di un rifugio, ma il ricordo vivente e palpabile di una giovinezza di sabbia e corporalità, di un piacere dalle tinte egoistiche a cui non vuole rinunciare. Kleber Mendonça Filho ci concede degli istanti di intimità in cui sentirci deboli e indifesi come, immaginiamo, debba esserlo Clara, abbracciata e consolata dai balli nel salotto solitario, dagli album di fotografie, dalla sofferenza che per un solo attimo crediamo di rintracciare quando anche la famiglia sembra non poterla capire. Clara vuole riempire la sua solitudine con se stessa, e questa è una delle tante contraddizioni che percorrono Aquarius.

E’ una pellicola che si prende il suo tempo per raccontare più storie insieme, con il rischio di rimanere immobile all’incrocio di queste; i dialoghi si presentano spesso come frammenti verbosi tra importanti silenzi e musiche mai abusate, ma collocate sapientemente; le inquadrature indugiano con pazienza sui bacini nudi e sul mare aperto, mentre i campi lunghi svelano le incoerenze di un Brasile corrotto dalle piaghe della diseguaglianza. Tuttavia gli occhi che guardano sono quelli della spiritosa Clara dai lunghi capelli scuri, che non si lascia divorare dalla speculazione e sceglie di rinnovare il vecchio Aquarius secondo il proprio, luminoso, gusto; è la critica musicale della classe medio-alta che ci racconta le linee di frattura che sfaldano la nazione brasiliana, ma lo fa con distacco, affacciata alla finestra della casa sul mare, consapevole di potersi muovere in tutte le direzioni pur di salvaguardare il nido primigenio e, ancor di più, la propria autonoma volontà.

Aquarius, secondo lungometraggio di Mendonça, concorre per la Palma d’oro a Cannes 2016: è innegabilmente un trionfo di immagini e suoni, da guardare più che da sentire. Non riesce, forse, a lasciare traccia di sé perché è creatura della sua protagonista e si muove in modo sincronico con la propria austera regina; e di lei, per l’appunto, sentiamo e capiamo poco. Nonostante il regista abbia dichiarato che non c’è alcuna associazione tra la pellicola e ciò che accade nel suo paese, le controversie non sono mancate: del resto si fatica a cogliere l’obiettivo sostanziale che motiva Clara, e quindi l’intera vicenda. Con incedere calmo, il fuoco si sposta da una confusa burrasca interiore alla prise de conscience di una lenta, endemica erosione del civismo, passando per la reiterata dicotomia vecchio-nuovo. Il rischio è di sfiorare solo in superficie i vari livelli, senza sfuggire al pericolo del tono predicatorio e della narrazione parabolica.

Ma c’è un monito che riecheggia forte e chiaro e restituisce vigore all’intera pellicola: non importa quale sia la battaglia che scegliamo di affrontare, questa ci coglierà sempre impreparati perché privi di qualsiasi arma adeguata. Ma come le fragili pareti di Aquarius cambiano colore, così dovremmo imparare ad adattarci alle sfide. Per difenderci. Per resistere.

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