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Inferno non è un Paradiso

Accidia.

È questo il vizio capitale in cui si incappa durante la visione di Inferno. Ron Howard riesce a intessere una tela di noia interminabile, confermando, nella sua recente carriera, la parabola discendente iniziata già con Heart of the sea (2015). Quest’ultimo e Inferno hanno molti difetti in comune. Per esempio puntano entrambi sulla fotografia, la scenografia e la meraviglia visuale, ma non vanno oltre quello. Se probabilmente gli incassi di Inferno saranno decenti, sarà grazie ai fasti del passato e a qualche furba trovata (gli attori Omar Sy e Irrfan Khan dovrebbero attirare rispettivamente il pubblico francofono e indiano), ma è emblematico il confronto tra due film molto diversi come Heart of the sea, ottava meraviglia degli effetti speciali CGI, che puntava su una trama davvero poco interessante e a tratti così banale da essere irritante, e un film low-budget dell’anno prima, Whiplash (2014). Il primo, con un budget di 100 milioni di dollari, è riuscito ad andare in perdita di quasi 7 milioni (93,9 milioni l’incasso globale), il secondo, con 3,3 milioni, una regia da urlo, una qualità attoriale al di sopra della media e un trama magnetica, ne ha guadagnati 49! Forse è consigliabile seguire questi esempi virtuosi e tornare a far battere il cuore del pubblico (siamo nel pieno della conclamata crisi delle idee di Hollywood, e si vede). Ringraziamo quindi Ron Howard per il bellissimo e consueto tour tra le bellezze italiane, perché la pubblicità gratuità non si rifiuta mai. Goffa e vistosa invece quella che appare nel film, per la gioia di Fiat e Italotreno. Insomma, Inferno è il ritratto sonnacchioso di un’Italia in cui i treni funzionano e gli italiani sono dei sempliciotti che lasciano incustoditi il battistero di San Giovanni a Firenze o i sotterranei di San Marco a Venezia. Ma accettiamo gli scopi funzionali della finzione e guardiamo ai difetti veri. Suspenda velose? Scusate, cado nella mania degli anagrammi, tanto cari al protagonista della saga di Dan Brown, Robert Langdon (anagrammi che, per la verità, credevamo fossero ormai un espediente narrativo superato). Dunque sto al gioco e risolvo l’anagramma: Dov’è la suspense? In tutto l’arco del film non si incontra un attimo di tensione, non c’è stupore, non c’è movimento vero e proprio: i personaggi si spostano fisicamente, ma l’intreccio resta lì, a braccetto con la trama. L’accidia con cui si apre l’articolo nasce proprio dalla noia che prova il nostro cervello a stare inattivo per tempi lunghissimi, in cui ogni singolo rapporto tra i personaggi ci viene spiegato, lasciandoci poco o niente a cui pensare. Forse di questo film resteranno i grandi punteggi degli attori su Runtastic e alcuni momenti di stupore e meraviglia colti da qualche straniero attempato, ma non da noi, che siamo italiani, quelli veri. Che esigiamo di più. Di più di una cospirazione epidemica che ricorda tanto il virus Chimera di Mission impossible II, di più di una rappresentazione davvero inverosimile dei funzionari dell’Organizzazione mondiale della sanità, ritratti come sicari pronti a tutto, di più di uno spaesato Tom Hanks sballottato di città in città, accompagnato da Felicity Jones in una continua rincorsa allo scorcio più caratteristico da filmare e gettare in pasto al turismo di massa. Ma soprattutto esigiamo di più da Ron Howard: in quale selva oscura si è cacciato il regista di A beautiful mind?

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