La discriminazione istituzionale e il Presidente black
La corsa lo sappiamo sta finendo, manca solo una settimana e l’attesa sarà finita. Per alcuni l’attesa è trepidante, soprattutto per i curiosi che dopo il voto sul Brexit ormai si aspettano di tutto, per altri è un’agonia. Per i candidati invece è una roulette russa. Il video-rivelazione sulle considerazioni misogine di Trump e la riapertura delle indagini sulle email della Clinton da parte del FBI sembrano colpi di scena scritti dai migliori sceneggiatori televisivi; ma questa sfortunatamente è la vita reale. In ogni caso, a lasciare la Casa Bianca, come si è spesso ripetuto, sarà il primo Presidente nero, un politico molto abile ma che ha fallito nel compito forse più simbolico, quello cioè di segnare una svolta nelle divisioni tra le varie comunità o minoranze della società.
Negli anni ’70 e ’80 non era facile essere Nero in America. Basta vedere due serie TV in stile vintage che vanno tanto di moda per capire quale fosse la pressione posta sul tessuto sociale dalla prevaricazione “bianca” rispetto ai Neri. In quegli anni, nel profondo sud, la discriminazione era quotidiana nonostante il successo negli anni precedenti del Movimento per i Diritti Civili di Martin Luther King. Le cronache dell’epoca ci hanno abituato a scene di incendi appiccati a case e chiese o di pestaggi non meglio definiti a danno dei lavoratori neri, ma tutto questo sembra appartenere ad un’altra epoca. E invece no. Oggi, nel 2016, la stessa pressione sociale si ripresenta, rinata, avvalorata da evidenze e prove social che la moderna tecnologia permette. Una pressione sociale che si rivela per quello che è spesso stata ovvero una prevaricazione istituzionale quasi sistemica a danno di quelle comunità, ancora considerate delle minoranze, da sempre discriminate e stigmatizzate. Ma se negli anni ’70, per esempio, erano i Bianchi ricchi o benestanti ad essere portatori di quella violenza, oggi emerge che è la polizia, a prescindere dall’origine sociale degli agenti, ad accrescere il conflitto.
In realtà, questo tipo di rapporto di forza tra i Neri poveri, probabilmente giovani, magari appartenenti alle gang del quartierino, forse coinvolti nello spaccio di droghe, e la polizia è stata una costante nella storia americana. Con il tempo, però, si è raggiunto il limite di sopportazione. L’imprevedibilità della vita delle periferie, la povertà, l’immobilità sociale e la disoccupazione sono stati progressivamente rinfacciati al governo, mettendo in luce una sorta di distaccamento sensibile tra ciò che era deciso a livello politico e il modo in cui veniva tradotto a livello sociale.
L’evento scatenante della protesta contemporanea risale al febbraio del 2012 quando a Sanford (Florida) Trayvon Martin, 17 anni, è stato ucciso da un poliziotto. Il ragazzo era appena uscito da un supermercato con delle caramelle e una lattina e un vigile, guardandolo, lo ha considerato sospetto. Ha informato la sua Centrale che gli ha sconsigliato di intervenire, ma ha agito lo stesso. I due hanno lottato, il ragazzo disarmato è morto perché il vigile gli ha sparato, “per legittima difesa”. Ma al vigile non è successo nulla perché la legge della Florida permette alla polizia di usare le armi se l’agente ritiene che il sospettato rappresenti un’effettiva minaccia (Stand Your Ground Act).
Questo episodio non è tanto importante per il fatto in sé, ma per gli eventi che ne sono conseguiti. Quando la giuria ha deliberato la non colpevolezza dell’agente, Alicia Garza, una donna Nera, che al momento del verdetto si trovava all’altro capo del Paese, ha twittato un messaggio di denuncia. Voleva mettere in evidenza il peso sociale che ricadeva sulle spalle dei Neri, il modo in cui i poliziotti se la cavano sempre, concludendo il tutto con alcune frasi di sostegno: “Black people. I love you. I love us. Our lives matter”.
Una sua cara amica ha fatto girare il messaggio con l’hashtag #blacklivesmatter e in breve tempo, grazie alla popolarità social raggiunta, è stata creata una piattaforma per raccogliere le storie e le testimonianze della discriminazione quotidiana nei confronti dei Neri d’America.
Da hashtag è diventato un movimento quando il 9 agosto 2014 Michael Brown, 18 anni, disarmato, è stato ucciso da dodici colpi di pistola sparati da un poliziotto bianco (che uscirà dal processo senza nessuna accusa) nella città di Ferguson (Missouri). In quell’occasione, la protesta non è rimasta limitata a Twitter ma si è manifestata fisicamente: la popolazione Nera è scesa per strada e al grido di “black lives matter” ha affrontato in modo diretto, e anche violento, la polizia.
Il successo ottenuto dal movimento non era nelle finalità di Alicia Garza, non lo aveva previsto e forse non se lo aspettava, ma alla base della sua azione stava la volontà di raccogliere il sentimento di frustrazione in un movimento capace di dare una svolta politica. Il Movimento di Black Lives Matter non ha una voce unica ma tante unite dallo stesso programma: cambiare la situazione sociale della comunità Nera portando delle proposte politiche concrete, senza necessariamente ricorrere alla violenza. Le donne, madri, mogli, sorelle, si dichiaravano stufe del pericolo delle strade frequentate dai giovani ragazzi Neri. Un pericolo che si riflette anche sulle loro vite, su quelle delle loro figlie, un pericolo così grande da diventare una discriminazione permanente nei confronti di tutti, finanche delle comunità LGBTI nere e americane, una discriminazione presente a vari livelli non solo quello sociale ma anche all’interno del sistema educativo e di diritto di voto. Ne è dunque venuto fuori una specie di Movimento per i Diritti Civili 2.0 coordinato dai social ma socialmente e politicamente attivo sia a livello locale che nazionale.
Però, a fronte di questo crescente “vilipendio” delle forze dell’ordine americane, gli stessi poliziotti hanno creato il proprio movimento il Blue Lives Matter (blue per il colore della divisa, ovviamente, non per il colore della pelle). Dopo la morte di Michael Brown a Ferguson, il Movimento ha iniziato a battersi contro la retorica della discriminazione e della prevaricazione subita dalla Comunità Nera, mettendo in evidenza il pericolo che gli stessi agenti corrono quando lavorano tutti i giorni per strada. Una polarizzazione, che rischia la radicalizzazione, tra due posizioni molto distanti che si è manifestata in più occasioni negli ultimi anni. Nel dicembre 2014, due agenti della polizia di New York sono rimasti uccisi in un’imboscata preparata da un fanatico che si rivendicava membro del Black Lives Matter. Nel 2016 quando si sono verificati due eventi molto gravi: il primo a Dallas durante una manifestazione in strada, un ex soldato americano nero ha aperto il fuoco sulla folla mirando in realtà i poliziotti. Il secondo si è svolto a Baton Rouge (Louisiana), in un’imboscata ai danni della polizia durante la quale un ex marine ha ucciso tre agenti e il vice sceriffo. In entrambi i casi gli assalitori sono stati uccisi.
Nonostante esista questo rovescio della medaglia, quello che frustra maggiormente è l’impunità della polizia, ovviamente non solo nei confronti di quanto avviene nello scontro con le comunità nere, ma in generale. La sezione americana del giornale inglese “The Guardian”, sull’onda degli eventi che si sono verificati dal 2012 in poi, ha aperto una sua sezione investigativa, che si chiama The Counted, al fine di raccogliere e pubblicare tutto il materiale reperibile sui casi di omicidio da parte degli agenti di polizia durante il servizio (i dati finora disponibili riguardano il 2015 e il 2016). Un lavoro al quale il FBI e il suo direttore si sono fortemente opposti in quanto sostengono che le fonti usate non siano attendibili. Anche il Washington Post quest’anno ha iniziato una sua sezione investigativa in merito alle sparatorie provocate dalla polizia, anche in questo caso il database inizia dal 1° gennaio 2015.
Tutti gli eventi citati però hanno una cosa in comune, si sono svolti quando al governo c’era un Presidente nero. Ora il Presidente sta per cambiare e le cose non si risolveranno tanto in fretta. Ovviamente Black Lives Matter è stato uno dei temi della campagna elettorale e le posizioni non potrebbero essere più diverse. L’elezione di Trump non porterebbe ad alcuna soluzione dal momento che lui non sembra aver afferrato bene la gravità del problema. Trump, da candidato repubblicano senza un vero e proprio sostegno da parte del Partito, ha spesso ripreso retoriche e discorsi dei precedenti candidati repubblicani in un accozzaglia di politiche anti-immigrazione e stereotipi sulle minoranze francamente distanti dalla realtà. Così facendo ha dunque evitato proprio il problema rivolgendosi direttamente all’élite bianca istruita e ricca (o comunque benestante), perdendo di fatto il voto dell’elettorato nero repubblicano. Ma anche la Clinton non offre una vera soluzione. Nonostante abbia incontrato i leader del Movimento presenti a Washington D.C. quello che sembra promettere, di fatto, è il mantenimento dello status quo in quanto sembra suggerire che i problemi sono altri.
Obama se ne va e con lui il sogno dell’America “post-razziale”. La stessa pressione sociale che negli anni ’60 ha dato vita al Movimento per i Diritti Civili si ripresenta oggi immutata. Un ferita aperta alla quale Obama non ha saputo rispondere. Ammettiamolo dunque se non ci è riuscito lui, le probabilità che uno dei due aspiranti successori trovi una soluzione efficiente, o addirittura efficace, sono abbastanza deboli, se non ridotte.