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Alice: quando Wonderland incontra “l’underground”

di Claudio Lacirignola

Attenzione: l’articolo contiene spoiler.

Lewis Carrol è, senza dubbio, uno dei precursori del surrealismo, in particolare per la sua perfetta comprensione della Logica del sogno. Alice’s adventures in Wonderland (1865) rappresenta l’esempio perfetto di sogno infantile, denotato da elementi come l’ingrandimento ed il restringimento della protagonista o le trasformazioni in animali, il tutto condito con il tono nosense che caratterizza l’opera.

Sono molte le trasposizioni cinematografiche tratte dal suddetto romanzo e, in certi casi, dal suo seguito Through the looking-glass, and what Alice found there (1871), tradotto “Attraverso lo specchio, e quel che Alice vi trovò”: da Alice in Wonderland (1903) di Stow e Hepworth al famoso classico Disney del 1951, fino ai recenti – e deludenti, a mio avviso – Alice in Wonderland (2010) di Tim Burton ed Alice attraverso lo specchio (2016) di James Bobin; ma l’Alice del regista e animatore ceco Jan Švankmajer resta, senza ombra di dubbio, il tributo più originale a quest’opera immortale.

Partendo dal titolo, Něco z Alenky tradotto letteralmente “Qualcosa da Alice”, Švankmajer sembra voler sottolineare il suo intento di usare il romanzo come punto di partenza: nonostante la pellicola segua approssimativamente la trama del suddetto e ci inserisca alcuni dei personaggi principali, l’impronta autobiografica del cineasta caratterizza l’intera opera: dalle sue ossessioni per il collezionismo e il cibo al suo amore per il teatro e il palcoscenico, fino al dualismo “animato”-“inanimato”. Alice si manifesta come l’unione di due menti complementari, attingendo dall’infanzia e dalle esperienze di entrambi gli autori, creando quindi un’opera sperimentale (alterna la stop motion alla recitazione tradizionale o le fonde insieme) e unica nel suo genere.a

La prima sequenza si apre con la piccola Alice (intrerpretata da Kristýna Kohoutová), unica interprete “umana” del film se escludiamo la sorella presente in questa scena, intenta a tirare sassolini in un ruscello; a fianco la sopracitata sorella legge un libro. L’azione si sposta nella casa della protagonista dove la bambina perpetra l’azione servendosi di una bambola – che diventerà il suo alter-ego una volta rimpicciolita – per centrare, con i ciottoli, una tazza di tè. Una panoramica, accompagnata dai titoli di testa, ci mostra subito la messa in scena di Švankmajer: bambole di ogni tipo, collezioni di farfalle e insetti, marionette e animali impagliati. Tra questi, il fantomatico White Rabbit che, in una peculiare sequenza, si schioda dalla base e si riempie “lo stomaco” di segatura, ricucendosi il ventre – azione che ripeterà spesso durante il film. Attraverso uno scrittoio, altro elemento che sottolinea il materialismo onnipresente nella poetica del regista – un altro esempio è la boccetta di inchiostro usata come pozione rimpicciolente -, Alice raggiunge il “Paese delle meraviglie”, non cadendo da un pozzo come l’opera originale, bensì attraverso un montacarichi. La discesa ricorda un macabro laboratorio: cibo orrendamente fuso con chiodi e scheletri di piccoli animali. Il tutto sembra incuriosire la bambina che, senza rendersene conto, piomba su un enorme cumulo di foglie secche, all’interno di una stanza spoglia. L’incantevole giardino di Carrol non è presente in Alice: tale luogo andrebbe fortemente in contrasto con i toni e lo stile della pellicola; Švankmajer sceglie quindi di ambientare la vicenda principalmente in interni – anche per motivi pratici, contando che l’animazione passo-uno risulta decisamente complessa, se realizzata in esterni – pur trapiantandone elementi naturalistici, come delle foglie secche assorbite da un cassetto o nella sequenza degli abeti che si ingrandiscono e rimpiccioliscono.

L’aspetto orrifico è, come consuetudine del regista, presente in ogni inquadratura, dal silenzio tombale che regna sovrano – escludendo i monologhi della bambina – alla composizione scenica; perfino i personaggi diventano via via più scontrosi e violenti: ricordiamo la sequenza della rivolta degli “aristocratici” animali – con tanto di carrozza -, capitanati dal White Rabbit, che percuotono Alice, racchiusa in un involucro a forma di bambola – a cui si potrebbe dare un’importanza sul piano psicanalitico – trascinandola giù per le scale del sontuoso palazzo (probabilmente del coniglio). Riuscendosi a liberare dal “guscio”, Alice si ritrova in uno sgabuzzino, una sorta di “castigo”, che si rivela essere un altro laboratorio, stavolta con fette di carne che danzano e scatole di sardine che contengono chiavi. Nella scena successiva, una delle più inquietanti per il sottoscritto, ritroviamo il Bianconiglio intento ad accudire, dentro una casetta, un neonato in fasce che piange persistentemente, lanciando piatti alla protagonista impedendole l’accesso. Ciò che sorprende della superba messa in scena del regista ceco è il suo saper portare su schermo un’arte povera e d’impatto allo stesso tempo: ecco quindi che un calzino colorato, due occhi di vetro ed una dentiera si trasformano nel Brucaliffo.

Altro personaggio carroliano che ritroviamo in questa opera surreale è, senz’altro, il Mad Hatter accompagnato, nell’ormai famoso Tea Party, dalla Lepre Marzolina: il primo è qui una lignea marionetta bohémien, il secondo un coniglio a corda, che il cappellaio provvederà con fare quasi schizofrenico a ricaricare quando necessario; il tutto si concluderà con il ghiro che, sbucando dalla teiera, interrompe i discorsi insensati che il Mad Hatter farnetica ad Alice.df

È nella successiva sequenza che Švankmajer mostra tutto il suo amore per il palcoscenico, fisico e metaforico: il castello della regina diventa infatti, scenograficamente parlando, un vero e proprio palco teatrale, con tanto di tendine e sfondo dipinto (in miniatura, si intende). Ai personaggi già incontrati si aggiungono quindi figure bidimensionali, i soldati e i sovrani di cuori, composti da figure di cartone o carte da gioco. L’ennesima irruzione del White Rabbit armato di enormi forbici, costerà la testa ad alcuni soldati e, all’ordine della Regina di Cuori, perfino al Mad Hatter e alla Lepre Marzolina che, intenti a disputare una partita a carte, si scambieranno infine le teste (un omaggio al collega Jodorowsky).

Il viaggio di Alice si conclude con un processo, indetto dal re e dalla regina: l’accusa sarà quella di aver mangiato biscotti (la causa, insieme alla boccetta di inchiostro, dei suoi frequenti cambiamenti di stazza). Il Bianconiglio è in procinto di decapitare anche la bambina, quando ad un tratto la telecamera inquadra in primo piano Alice, mentre la sua testa viene rimpiazzata, una per una, da tutte quelle dei personaggi incontrati nel viaggio. Saranno proprio i biscotti a riportare la protagonista alla realtà, dove ritrova nella camera tutti gli abitanti di quel mondo onirico, in forma di natura morta; manca all’appello il White Rabbit, di cui rimane solo la teca infranta: sta allo spettatore il dubbio se quanto visto sia realmente accaduto oppure no.

L’Alice di Švankmajer vive il viaggio a Wonderland come un confronto con il mondo adulto e con la propria crescita. Il frequente implorare al coniglio “Oh signore, la prego aspetti!” con il conseguente rifiuto da parte di questo è forse una proiezione dell’inconscio della bambina (e dell’autore), così come il portale, ovvero lo scrittoio, e la boccetta di inchiostro – che guarda caso causa restringimento – rappresentano le sue paure. Il viaggio della protagonista si può riassumere come la ricerca dell’identità, sua e del mondo che la circonda.

Come tutti i suoi film, anche in Alice il regista sceglie di lavorare con le immagini, più che con le parole. Come detto in precedenza, infatti, i dialoghi sono davvero pochi, ed è la protagonista a pronunciarli, in una sorta di dualismo prima/terza persona; perfino la musica è assente, rimpiazzata da suoni e rumori naturali: questa peculiare scelta serve, come spiegato dal regista stesso, a sottolineare il “realismo” del sogno, discostandosi dal mondo, decisamente più fiabesco, visto nel lungometraggio Disney.

Alice rappresenta alla perfezione la poetica e lo stile di Jan Švankmajer, oltre ad essere un manifesto del cinema surrealista, passato e presente. Forse, oltre a riprodurre in loop il film di Burton, scuole e cinema dovrebbero provvedere a proiettare, e quindi far conoscere, questo piccolo gioiello confinato nel settimo girone dell’undergound cinematografico.

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