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Gabriele Lavia in “Il sogno di un uomo ridicolo” sul palco del Fraschini

Il sogno di un uomo ridicolo diretto e interpretato da Gabriele Lavia, una delle più rappresentative personalità del teatro italiano, ha dato avvio, nel fine settimana appena trascorso – in scena i giorni 13-14-15 Ottobre –  alla stagione di prosa del Teatro Fraschini di Pavia.

Lo spettacolo è tratto dal racconto omonimo del grande scrittore russo Fedor Dostoevskij, un racconto cupo che riflette sulla terribile e disperata condizione umana.

L’uomo ridicolo è un uomo solo, abbandonato e disprezzato da tutti, che, dopo averla a lungo corteggiata, decide finalmente di mettere in pratica l’idea di un suicidio. Ma, dopo notti insonni, si addormenta seduto sulla sua “poltrona alla Voltaire” proprio un attimo prima di scoccare, con la pistola che aveva conservato nel cassetto della scrivania, il colpo finale, rendendo vana ogni intenzione. Così inizia il suo sogno, il viaggio onirico che lo porta lontano, fino ad un pianeta identico alla Terra ma popolata da abitanti puri e innocenti che, per la prima volta, non lo reputano ridicolo. Ma la sua corruzione contamina l’innocenza degli abitanti di quel luogo, fino a farli completamente dimenticare della loro condizione iniziale, e così lui ritorna ad essere solo l’uomo ridicolo.

Dostoevskij, attraverso la finzione letteraria, riflette sull’ l’egoismo, l’avidità e i vizi dell’uomo del suo tempo, e sull’uomo di ogni tempo, per natura immorale e meschino, ingabbiato nella propria finitezza e che costringe alla marcescenza tutto ciò che tocca. Ridicola è l’intera umanità che si illude, nella propria bassezza, di poter controllare il mondo.

Sogno di un uomo ridicolo 2Lavia traduce il racconto – strutturato quasi matematicamente in una gabbia di incessanti ripetizioni, riferimenti e rimandi che costringe costantemente a tornare indietro, a guardarsi alle spalle – in un monologo profondo e appassionato che riflette sulla natura dell’uomo condannato alla sofferenza perpetua, sofferenza che lo porterà irrimediabilmente alla distruzione, senza possibilità alcuna di una qualsiasi redenzione.

La scenografia è semplice, minimale. Ai due lati del palco una bambola, che rappresenta una bambina con cui il protagonista avrà a che fare in un momento della drammaturgia, e la scrivania con la “poltrona alla Voltaire”, luogo del suicido mancato, materializzano gli unici due avvenimenti concreti del racconto. Lavia, figura eccentrica e carismatica, è in scena da solo per quasi la totalità dello spettacolo. L’unico altro interprete rappresenta la proiezione del ricordo del protagonista, ma agisce poco, quando agisce concretizza in azione la situazione che il protagonista, voce narrante, ha appena descritto, e parla ancora meno, quando lo fa ripete soltanto parole appena dette dal sé stesso “reale”.

Lavia indossa una camicia di forza che trattiene il personaggio ma che fatica a contenere l’energia dell’attore. Sul palco vediamo una abilità attoriale straordinaria, la sua interpretazione è forte, profonda, viscerale. Assistiamo a un monologo di un’ora in mezza, in un unico atto, che ci travolge di parole e di emozioni, vediamo l’attore dimenarsi, urlare, crollare a terra, trascinarsi, strisciare e tornare sempre in piedi. Lavia con la sua bravura riesce a mantenere l’attenzione su di sé e a far vivere e vibrare il testo anche nei momenti in cui la drammaturgia diventa più dispersiva, più difficile, più debole. E gli spettatori lo seguono ipnotizzati nel suo muoversi vorticoso, nel suo camminare sulla terra distesa sul palco che si alza in polvere ad ogni suo passo.

Il lungo applauso finale, reale e sincero, dimostra quanto il pubblico abbia apprezza la sua generosità, quanto abbia apprezzato la sua performance, e anche Lavia rinuncia alla serietà austera sorridendo per un ringraziamento appassionato. Quale migliore inizio per una stagione di prosa?

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