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“Le serve” di Anfuso: un’opera dominata dalla drammaturgia

Dopo un settembre dedicato al Festival internazionale delle Drammaturgie “Tramedautore”, la stagione teatrale del Piccolo Teatro Grassi esordisce con un testo del drammaturgo francese Jean Genet, un atto unico che conserva dopo decenni una potenza immutata, prerogativa sola dei grandi classici.

Il rischio in questi casi è sempre duplice e sempre alle porte. Rivisitare un testo abbondantemente rappresentato e noto esige un atto creativo al contempo ardito e accorto: si può rileggere il testo, capovolgerlo, sviscerarlo nei contenuti più profondi, ritradurlo, a patto di mantenere un integro e fedele legame con l’intento primigenio. E’ stato questo ad esempio l’approccio di Latella che nel suo Pinocchio ha ripescato la vicenda nella sua interezza guadagnandosi i palchi del teatro milanese per il secondo anno consecutivo.

La tentazione diametralmente opposta è quella di affidarsi alla sola forza della drammaturgia: è particolarmente insidiosa e può condurre a un atto di abdicazione alla regia. Le serve contiene in modo innegabile tutti gli elementi della fiaba, dalla matrigna alle sorellastre unite da un filo morboso, dal veleno ai drappeggi di velluto verde, e tuttavia tutto ciò rappresenta un’eredità della fonte testuale.

La pièce rievoca i giochi perversi di due cameriere che con assiduità ossessiva mettono in piedi un rituale di condanna: indossano i vestiti di Madame, ne esasperano gli atteggiamenti irrisori e prepotenti, si maltrattano fino allo stremo delle forze, giungendo solo a sfiorare la vetta del desiderio più intimo e oscuro. Nei patetici teatrini in cui si avventurano, l’ombra di Madame cresce in crudeltà, si espande fino a contaminare ogni oggetto dell’asfittica stanza da letto in cui si svolge l’intero atto; poi con la stessa immediatezza con cui l’oscurità ha avvolto ogni cosa, si dissolve, costretta nel corpo minuscolo di Claire, la più sommessa delle due sorelle, fragile e manipolabile, imbevuta di un’adorazione meschina e egoista per Madame.

Il testo è in questo caso una risorsa inestimabile: il meccanismo del viaggio continuo tra realtà e finzione non si limita all’avventura teatrale, ma insinua nella realtà fittizia della scena lo stesso inganno vissuto dallo spettatore a teatro. Le porte dell’avventura onirica sono dappertutto e il meccanismo è tale da catapultare colui che guarda in una spirale convulsa: dalla verità drammatica di una condizione di sottomissione si giunge ad un’inversione di ruoli che ha il sapore di un sogno ancora più drammatico.

Qualcosa nella messa in scena si inceppa. Claire e Solange, al momento di rivestire i panni delle serve-sorelle, non mostrano alcun mutamento tangibile: l’atteggiamento corporeo, l’intensità della voce, le intenzioni ricalcano la finzione da cui non riescono a emergere per intero. Claire conserva qualcosa della Madame che ha interpretato e Solange persevera nei suoi patetici sussurri, ricolmi di odio e rancore, verso la padrona, estendendoli, per l’inganno appena vissuto, alla sorella che ne ha assunto il ruolo scenico. C’è un buco della serratura attraverso il quale lo spettatore crede di aver sbirciato, insospettato e silenzioso, ma in cui non viene risucchiato perché la regia rimane statica e priva la scena della capacità di fluire da una dimensione all’altra.

Giovanni Anfuso non è capace di amplificare la potenza dissacrante di Genet e ne è quasi soverchiato: il noir del testo francese si traduce visivamente in donne raffigurate in posizioni plastiche su enormi pannelli sullo sfondo, e altri dettagli scenici presentano un retrogusto un po’ cinematografico e superfluo. Il testo, che ha una carica dissacrante, diventa una prigione per il regista siciliano: incapace di darne una rappresentazione propria, si limita a “raccontare” la vicenda intrisa di di frustrazioni liaisons dangereuses, che entusiasma nella narrazione ma che manca della magia di una resa scenica vibrante.

Manuela Mandracchia attinge energia da dove può, da ogni spasmo e da ogni acuto di voce, ma è un titano solitario che si aggira per una scena priva di spunti sufficienti ad emozionare; un vento frizzante accompagna l’ingresso trionfale di Vanessa Gravina, una Madame spietata che nella parte della svampita cela un’acutezza feroce. E’ una padrona quasi impossibile da detestare, bella e prodiga, egoista e innocua: Solange e Claire ne sono le vittime principali, ammaliate da una crudeltà rivestita di splendore. Patetiche e pavide, non riusciranno a portare a termine il loro inganno e scivoleranno nel circolo vizioso dell’accusa reciproca, del senso di colpa, della pietà per la propria condizione che le rende incapaci di quell’atto di forza necessario ad uscirne per sempre. Il monologo finale di Anna Bonaiuto è fiacco e priva la debolezza estrema di Claire di ogni commozione.

Lo spettacolo giunge a conclusione in modo convulso e sbiadito: su di esso grava il peso di un testo teatrale violento e dalla struttura psicologica intricata e abissale.

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