Attualità

al-Qaida, jihad e terrore

Dopo aver analizzato le ragioni geografiche, storiche, i motivi degli interventi stranieri, le grandi alleanze, il carattere nazionalistico che spinge i gruppi di “ribelli” a combattere, bisogna entrare nel merito dello Stato Islamico (cosiddetto). Come tanti dei fenomeni sociali e storico-politici, l’ISIS non è un fungo che nasce dal nulla dopo un’acquazzone. Come organizzazione radicale non si è inventata nulla di nuovo, forse l’unico “merito” è che più di altre è riuscita a dare vita ad un sistema che sembra funzionare come uno Stato pur non avendone le caratteristiche. Già il nome ISIS deriva da ISI, Islamic State in Iraq, che a sua volta deriva da AQI, al-Qaida in Iraq, che dunque deriva dall’organizzazione al cui vertice stavano Osama Bin Laden e Ayman al-Zawahiri, due nomi che hanno terrorizzato l’Occidente più dell’urlo di Chen. Senza metterli tutti nella giusta prospettiva non si capisce quale sia l’onda lunga che ha permesso lo sviluppo dell’ISIS sia come organizzazione regionale che internazionale.

Se si deve far risalire l’inizio di un fenomeno come quello del terrorismo di matrice islamica dell’epoca contemporanea ad un evento in particolare, allora bisogna guardare a quanto è successo nel 1979 con l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa. Nel 1978, avvenne un colpo di Stato che portò al potere il Partito Popolare afghano, comunista e quindi filo-sovietico. Il nuovo governo incontrò una forte resistenza negli ambienti conservatori a maggioranza islamica, tanto che per dirimere la questione venne chiesto l’intervento dell’esercito sovietico. L’URSS si convinse ad intervenire, ma fece i conti senza l’oste: da una parte pensava di andare incontro ad un intervento facile, in quanto riteneva che tutti gli ambienti afghani avessero la medesima componente filo sovietica, mentre era una caratteristica solo di Kabul; era invece completamente assente in quelle regioni montuose al confine con il Pakistan dove la resistenza era più forte. Dall’altro lato, l’URSS non aveva tenuto in considerazione che gli afghani sarebbero stati finanziati dagli Stati Uniti. Gli anni’80 sono i primi anni della Presidenza Reagan, un periodo nettamente più interventista rispetto ai precedenti.

L’Armata Rossa rimase intrappolata per dieci anni in una guerra senza vie di uscita. Ma fu l’ascesa di Michail Gorbacev a metà degli anni ’80 a cambiare la situazione. Egli era consapevole che per sperare di ottenere una qualsiasi forma di dialogo con gli Stati Uniti avrebbe dovuto rinunciare alla presenza in Afghanistan. La decisione fu presto presa e l’Armata Rossa si ritirò lasciando però dietro di sé il vuoto politico e nessuna valida alternativa di governo. Un vuoto che favorirà l’ascesa, qualche anno più tardi, del regime dei Talebani (è intuibile come la questione sia molto più complessa e sfaccettata).

La presenza sovietica era combattuta dalla compagine musulmana della società, un evento che attirò numerosi musulmani provenienti da altre regioni, chiamati alla causa dalla propria vocazione religiosa. Fu in questo contesto fluido e molto complesso che prese vita la prima versione dell’organizzazione che sarà conosciuta in seguito come al-Qaida, come teorizzata dal fondatore, il palestinese Abdullah Azzam, che all’epoca si chiamava The Vanguard, l’avanguardia .

Al momento del ritiro degli eserciti, in Afghanistan erano presenti grandi quantità di combattenti stranieri, i foreign fighters, addestrati in campi speciali costruiti nel labirinto delle montagne afghane. Ad organizzarli c’era Osama Bin Laden, esponente molto pio di una famiglia saudita (di origine yemenita) straordinariamente ricca e numerosa (Bin Laden padre pare abbia avuto un totale di venti mogli, anche se ne manteneva “solo” quattro per volta come prescritto dal Corano, ed ebbe circa cinquanta figli). Data la sua ricchezza personale e i contatti che aveva maturato grazie alla posizione sociale, egli fu accettato immediatamente nell’organizzazione. Nei campi, Bin Laden provvedeva ad istruire i combattenti nel nome dell’Islam e del jihad, insegnava loro ad usare le armi e metteva alla prova la loro fede e motivazione. Quando però l’URSS si ritirò, i combattenti si ritrovarono improvvisamente senza un nemico, senza una causa che li mantenesse nella povertà afghana, nonostante avessero ancora la motivazione ideologica. Numerosi di questi cambiarono teatro di combattimento, alcuni partirono per Cecenia, Tajikistan, Bosnia, Kashmir, Libano, Filippine, Nagorno-Karabakh, Algeria e Libano. Bin Laden temeva una perdita eccessiva di combattenti ed iniziò dunque ad investire il proprio patrimonio nella costruzione di un’organizzazione che fosse sua e che seguisse la propria dottrina. Non fu creata con il nome di al-Qaida, anzi non aveva un nome unico o definito. Il nome apparve per la prima volta in un documento pubblicato dalle forze di sicurezza americane nel 1998. Bin Laden non pensava di dover combattere solo i regimi arabi che si dicevano musulmani ma che non applicavano la shari’a in modo adeguato, e che per altro erano corrotti e favorivano l’ingresso della cultura e degli stili di vita occidentali. Certo li disprezzava, ma l’avversario era da ricercarsi nel corruttore primo, ovvero gli Stati Uniti. L’egemonia che l’Occidente stava imponendo in Medio Oriente era il male primario contro il quale combattere, insieme con la presenza di Israele, nemico giurato, che grazie al sostegno continuativo degli americani non solo usurpava le terre musulmane per giunta sacre (Gerusalemme è una città molto importante anche per l’Islam), ma opprimeva e sottometteva un popolo arabo e musulmano.

Poco dopo la fine della guerra in Afghanistan, Bin Laden fu costretto a trasferirsi perché la presenza americana disturbava i suoi piani ed era molto pericolosa per lo sviluppo dell’organizzazione. Dal 1991 al 1998 si stabilì a Khartoum (Sudan). In questa regione, la teoria del “nemico lontano” prese forma in un attacco diretto ai simboli dell’egemonia americana. Nel 1998, al-Qaida lanciò un attacco terroristico doppio alle ambasciate americane di Nairobi e Dar el-Salaam. Ggli Stati Uniti si resero conto forse per la prima volta della minaccia che l’organizzazione rappresentava, senza però essere pienamente consapevoli del suo potenziale. Per evitare la cattura e le rappresaglie, Bin Laden si trasferì nuovamente in Afganistan, dove il regime dei Talebani aveva trasformato l’area in una no-go zone nella quale poteva agire quasi indisturbato.

Gli anni africani diedero ad al-Qaida una nuova eco, in particolare i suoi attacchi ebbero grande impatto tra i gruppi radicali simili che agivano a livello locale, soprattutto in Egitto. In quegli anni, la Repubblica egiziana era sottoposta ad una forte pressione interna, il Presidente Sadat era percepito come una minaccia in quanto aveva accettato di firmare un trattato di pace con gli Stati Uniti e Israele (gli Accordi di Camp David del 1978). L’opposizione proveniva in modo particolare dal gruppo del Jihad Islamico Egiziano (EIJ), che riuscì nel 1981 ad assassinarlo. All’EIJ apparteneva anche Ayman al-Zawahiri. Egiziano proveniente dalla classe media, militante nei gruppi politici già dall’età di quindici anni, entrò nel Jihad Islamico al momento della sua creazione nel 1973. Dopo l’attentato costato la vita a Sadat fu imprigionato e torturato. In prigione, oltre alla sua radicalizzazione ulteriore, avvenne il primo contatto con l’organizzazione di Bin Laden. Quando fu rilasciato, si recò in Afghanistan con l’idea di creare dei contatti al fine di sfruttarne le risorse che metteva a disposizione dei gruppi radicali. In breve tempo però, l’interesse finanziario venne meno e alla fine rimase a fianco di Bin Laden rescindendo i contatti con il proprio gruppo. Al-Zawahiri non era tanto carismatico quanto Bin Laden (benché egli stesso non fosse un capo dalle dichiarazioni altisonanti), non aveva la sua stessa storia, non era infatti il ricco che abbandona l’opulenza e preferisce invece la povertà alla quale lo costringe la propria causa religiosa, ma era comunque determinante nel definire le modalità di azione e gli strumenti dell’organizzazione stessa. I due però erano complementari, Bin Laden reclutava, propagandava e organizzava, mentre al-Zawahiri si occupava della struttura politica dell’organizzazione, diventandone di fatto il #2, nonché braccio destro del capo.

Entrambi erano salafiti, ovvero credevano in una particolare interpretazione della religione islamica. Il Salafismo, da salaf, “antico”, “vetusto”, predica il ritorno alle origini della predicazione islamica. I salaf erano i Compagni di Maometto e i loro primi discendenti diretti, essi avevano vissuto l’epoca aulica dell’Islam in quanto più vicini al momento della sua Rivelazione. I salafiti ritengono che la religione abbia subito un costante declino dovuto alla sua espansione globale, che la ha portata verso un sincretismo con quanto esisteva prima. Per questo essi rifiutano la modernità, le innovazioni, le scoperte scientifiche e per giunta alcune scienze moderne. Accusano l’Occidente di aver corrotto le società musulmane con il proprio stile di vita moralmente sbagliato e l’eccessiva libertà sessuale.

Si evince da questo che Salafismo non fa rima con jihadismo. Questo è, infatti, un termine coniato recentemente per indicare quei gruppi che portano avanti atti riconducibili ad una determinata interpretazione del concetto coranico del jihad. Dalla radice araba jahada, esso significa in realtà “impegno”, “sforzo”. Bisogna considerare che la traduzione di “guerra santa” è impropria e non deve essere utilizzata; nella sua accezione tradotta, essa fa riferimento a delle categorie che non sono presenti nel suo senso originario. Gli impegni del jihad, in realtà sono due, da un lato quello interiore che ricade in capo ad ogni musulmano nel miglioramento di sé e del rafforzamento costante della propria fede. Dall’altro quello esterno, sulla cui definizione casca l’asino. Un’interpretazione moderata sostiene che sia lo sforzo di difesa della Comunità intesa come dei valori del vivere comune. Altri sostengono che dopo l’espansione della religione, avvenuta con i Califfati Omayyade e Abbaside, abbia prevalso l’interpretazione più forte che considera il jihad come impegno nel prendere le armi per difende la Comunità da un nemico esterno. Uno dei principali sostenitori di questa interpretazione è Ibn Taimiyya, un dotto del XIII secolo, che riteneva che l’uso delle armi nei confronti di un capo politico musulmano che tradiva la propria religione non applicando in modo corretto la shari’a, fosse un atto dovuto. Una seconda influenza, più recente, viene dal dotto egiziano Sayyd Qutb (1906-1966). Egli riteneva che un capo musulmano che non applicasse la shari’a, entrasse nel regno della jahiliyya, ovvero nell’ignoranza dell’Islam. Un’offesa massima che poteva essere corretta solo muovendogli contro il jihad.

Né Salafismo, né jihadismo fanno in alcun caso riferimento al terrorismo suicida. Infatti questo strumento è intervenuto dopo, in epoche ancora più recenti, ed è stato molto difficile da giustificare in termini religiosi. Il primo ad avvalersi di tale tattica fu il braccio armato di Hezbollah, partito radicale sciita libanese. Ne fece un ampio uso in seguito alla guerra civile e passò il suo sapere ai combattenti palestinesi che se ne avvalsero contro l’oppressore israeliano. Lo strumento rivelò così la sua efficacia. Ma all’interno di al-Qaida le visioni erano contrastanti. Bin Laden non era favorevole all’uso mentre al-Zawahiri sì, il primo sosteneva che fosse improprio dato che il Corano in realtà vietava al musulmano credente e osservante di togliersi la vita, mentre al-Zawahiri era convinto della sua efficacia. Il terrorismo suicida richiama infatti una combinazione dei concetti di martirio, testimonianza e vergogna. Nessuna guerra finora combattuta ha visto un uso del terrorismo suicida da entrambe le parti. Il ricorso di solo uno dei belligeranti tende a dimostrare che essa stia combattendo per un fine ultimo superiore (nella fattispecie l’imposizione del bene sul male). L’essere portati al martirio è dovuto alla condizione di oppressione nella quale la guerra è combattuta. Allo stesso tempo però la scelta del martirio è anche la testimonianza di fede più grande che si possa fare non solo di fronte agli occhi di Allah, ma anche al resto della comunità islamica. Il martirio spettacolare dovrebbe infatti indurre negli altri credenti un senso di vergogna per la propria apatia e convincerli ad unirsi al jihad. Interessante notare come in arabo, “martire” e “testimone” derivino dalla stessa radice shahada.

Al-Qaida si è evoluta nel tempo con le circostanze internazionali, soprattutto dopo il ritorno in Afghanistan e l’attacco alle Torri Gemelle. Da organizzazione in prima linea, ha preferito quella di gestione degli affiliati e delle loro azioni, preoccupandosi inoltre di diffondere il proprio messaggio attraverso la propaganda videoregistrata e le riviste a diffusione cartacea e mediatica (una di queste si intitolava Jihad, tanto per non sbagliare). La scelta della deterritorializzazione, ovvero la sua trasformazione da “base” in “rete”, le ha permesso di sopravvivere alle rappresaglie e di avere una schiera di capi sempre pronti a prendere il comando nel caso in cui questi fossero stati uccisi.

Data questa descrizione, ovviamente da approfondire, sembrerebbe che al-Qaida sia la guida di una rete di combattenti clandestini e radicali. Sì e no, nel senso che tanti si rivolgevano a Bin Laden per usufruire della ricchezza che egli metteva a disposizione, ma tanti altri lo criticavano per le sue idee, prima tra tutte quella di voler combattere il nemico lontano prima ancora di aver deposto i regimi arabi apostati. Proprio per via della disparità delle convinzioni su motivi e metodi con i quali condurre il jihad, si è avuta una grande diversificazione di organizzazioni di cui l’ISIS è, oggi, solo la punta dell’iceberg. Nel prossimo articolo si vedranno proprio le reti e i ribaltamenti di alleanze interne che hanno portato a questa ascesa.

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