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Grandi speranze#1- La storia di Atai, dall’Afghanistan a Pavia con un sogno

Li chiamiamo profughi, rifugiati, richiedenti asilo, immigrati, disperati. Sono uomini e donne in fuga da un paese, il loro, dove non riescono più a vivere a causa della guerra, della violenza e della povertà, verso un altro, ad esempio il nostro, dove sperano di trovare una vita migliore. Tra di loro anche giovani, proprio come noi, che serbano nel cuore dei sogni per il futuro e sono venuti qui con la forza e la determinazione, nonostante le difficoltà, di realizzarli. Vi racconteremo le loro storie, storie di persone diverse, che non si conoscono e provengono da paesi differenti, ma che hanno in comune qualcosa: il desiderio di cominciare una nuova esperienza di vita lontano dall’atrocità di quella precedente e tante, grandi, speranze. Noi non saremo altro che il mezzo attraverso il quale far giungere a voi le loro parole; saranno loro stessi a raccontarsi parlandovi a cuore aperto, non senza difficoltà nel ricordare ciò che hanno passato, ma con la felicità di poterlo ora condividere con tutti.

 

Questa è la storia di Atai che dall’Afghanistan è venuto qui per realizzare il sogno di diventare psicologo come il padre, ucciso dalla gente del suo villaggio, e nel frattempo studia mediazione linguistica all’Università di Pavia lavorando come interprete. Nel suo paese ha lasciato tutto, parte della sua famiglia, la scuola da lui fondata, ma anche la violenza del governo repressivo dei Talebani dal quale è stato perseguitato come “infedele” e costretto a fuggire.

Sono Atai Walimohammad, ho 21 anni e vengo dall’Afghanistan. Vivo in Italia dal 2013 e dopo aver ottenuto la protezione come rifugiato, lavoro come interprete e mediatore linguistico-culturale. Il mio fratellastro è Atai Liaqat Ali, lui ha fatto l’Università di Medicina ed è medico.

Sono figlio di un medico, mio padre si chiamava Dott. Atta Mohammad e fu ucciso dalla gente del mio villaggio. Ero così piccolo che non l’ho mai conosciuto. Crescendo mi è nata la curiosità per le foto e i libri presenti in casa nostra e chiesi alla mia mamma: «Di chi sono queste foto e i libri?». Mia mamma mi disse che appartenevano a mio padre, e mi ratai4accontò che mio padre fu ucciso da un Imam con l’aiuto della gente del posto. Mio padre aveva sempre consigliato alla gente del villaggio di non uccidersi per i “vantaggi” dei paesi stranieri e di mandare i loro figli e le loro figlie a scuola invece di farsi saltare in aria per andare in “paradiso”. Da piccolo, il mio sogno era di diventare uno psicologo come mio padre: di mattina frequentavo la scuola e il pomeriggio andavo a fare i corsi di matematica, biologia, fisica, chimica e scienze. La gente parlava sempre male di me e cercava di ostacolarmi, ma nonostante tutto questo non mi sono fermato e ho continuato a frequentare la scuola. Nel 2011 i Talebani hanno aperto in una zona rurale, abbastanza lontano dal capoluogo, un centro di addestramento per i kamikaze, in cui veniva insegnato come farsi esplodere per Allah. Tutti i giovani ragazzi invece di andare a scuola andavano alla madrasa [scuola di insegnamento religioso, n.d.r.].

Nel 2012 ho aperto, con l’aiuto dei soldati americani e il governo afgano, un centro per l’apprendimento dell’inglese e dell’informatica per bambini e adulti nel mio villaggio; all’inizio non venivano in tanti, ma poi il numero è aumentato. Una volta a settimana venivano gli americani a fare la pattuglia nel villaggio e io andavo sempre a parlare con loro. Un giorno gli americani mi portarono i libri, i quaderni, i tappeti, le sedie, le matite, le lavagne e i tavoli per i miei studenti. Il giorno dopo ho distribuito tutti i materiali agli studenti, e ho convinto tanti padri che l’educazione è la migliore arma rispetto al fucile! Il 12 febbraio di quell’anno ho fatto una scultura che assomigliava a Buddha e l’ho portata a scuola, era una cosa strana sia per gli insegnanti che per gli studenti, alcuni erano contenti di vederla mentre alcuni si sono arrabbiati! Mentre io facevo vedere la scultura agli studenti, è venuto l’insegnante di teologia e ha cominciato a romperla; dopodiché ha incitato i ragazzi a picchiarmi: sono tornato insanguinato a casa ed è cominciata a circolare nel villaggio la voce che io mi fossi convertito al Buddhismo. Nel villaggio si è sparsa la voce che io fossi un infedele. Dopo l’episodio della scuola la gente ha smesso di mandare i figli al centro da me. Tutte le persone avevano dubbi su di me. Il 13 marzo, gli americani hanno attaccato un gruppo di Talebani nel mio villaggio, 4 di loro sono stati uccisi. Dopo l’attacco, i Talebani mi hanno accusato di essere una spia per gli americani e di essermi convertito al cristianesimo, il comandante dei Talebani, accompagnato dalla gente del posto, sono andati a bruciare il centro in cui insegnavo, successivamente sono venuti a casa, mentre io ero fuori, a rompere tutte le mie sculture e a frugare in tutta la casa. Tutto il villaggio e i Talebani volevano uccidermi. Sono riuscito a scappare nella provincia di Herat da dove ho lasciato definitivamente l’Afghanistan.

Il mio fratellastro, Atai Liaqat Ali, faceva il medico in un ospedale privato, e mentre si preparava per fare la specializzazione, fu avvicinato dai Talebani che gli chiesero di lavorare per loro. Al suo rifiuto è stato minacciato di morte e gli è stato detto di non curare i governativi. Il suo ulteriore rifiuto si è tradotto in un rapimento in ospedale durante le ore lavorative. Al suo ennesimo rifiuto di collaborazione ha subito torture tramite l’elettroshock ed è stato abbandonato sul ciglio della strada. Da quel momento la sua vita è cambiata: ha subito gravi danni al cervello ed è diventato menomato. Per farlo riprendere la mia famiglia lo ha portato in un ospedale in Pakistan dove ha trovato un minimo di sollievo con una cura anti psicotica. Durante la sua permanenza in ospedale, i talebani hanno bruciato sia il suo ospedale che la nostra casa e la mia famiglia ha deciso di allontanare il mio fratellastro dall’Afghanistan e fargli fare il viaggio verso l’Europa. Adesso è riuscito ad arrivare in Italia dopo un viaggio difficilissimo per la sua condizione mentale e si trova in un centro per richiedenti asilo a Crotone; ancora manifesta i problemi derivanti dalle torture subite dai talebani e ha paura di essere trovato da loro in Italia.

Anche il mio viaggio non è stato facile: ho viaggiato diverse volte sotto i cassoni dei TIR per potermi salvare ed ho attraversato diversi paesi. Appena arrivato in Italia la vita non era facile con una cultura così diversa. Per integrarmi ho capito l’importanza di studiare e capire la lingua italiana e dopo qualche tempo ho cominciato a lavorare in Puglia (dove c’era il campo profughi che mi ospitava) con gli avvocati che seguono i migranti. La mia passione per le lingue straniere mi ha portato a studiare e imparare da solo diverse lingue; dopo aver seguito atai2al corso per mediatore culturale, ho potuto lavorare come interprete e mediatore nel Centro di Prima Accoglienza di Zavattarello (PV) e nel frattempo sto facendo la Laurea Triennale in Scienze della Mediazione linguistica all’Università di Pavia.

Spesso, oltre a chiedermi perché sono venuto qui e qual è la mia storia, le persone vogliono sapere cosa penso della situazione del mio paese. La prima cosa che vorrei dire è che la vera guerra non è tra noi afghani ma sono le potenze straniere che fanno il bello ed il cattivo tempo nel mio paese, da sempre. Io mi domando: come mai i talebani non vengono ancora sconfitti? Da chi sono armati? E la comunità internazionale davvero vuole aiutare il paese o contribuisce alla situazione di instabilità? Da circa 15 anni la “coalizione” è in Afghanistan, ma si sa bene che tutto inizia in Pakistan, alleato degli USA e quindi non direttamente attaccabile. Se volessero davvero aiutarci già l’avrebbero fatto ma ci sono troppi interessi economici di mezzo e a rimetterci sono solo i miei connazionali che non sanno neanche per chi o cosa combattono. Direi che questa guerra nessuno ci tiene davvero a interromperla e le persone come me vengono accusate di essere “convertiti” e infedeli quando vorrebbero solamente vivere in pace ed esprimersi liberamente. Come negli anni ’70, quando le donne non indossavano neanche il velo e il diritto all’istruzione era libero; il tutto pur essendo in un paese musulmano…Questo a significare che il problema non è l’islam, ma sono chiaramente gli interessi che girano intorno all’Afghanistan.

Fortunatamente qui in Italia ho trovato una nuova famiglia composta dai miei colleghi (Matteo Vairo, Elena Galardi e Seraphin Dekou) e dai ragazzi che ospitiamo, ai quali cerco di essere di esempio e di riproporre le attività che svolgevo in Afghanistan: collaboro nell’insegnamento dell’italiano e facciamo laboratori artistici. Qui mi trovo bene, il mio lavoro mi piace, mi sento libero di esprimere le mie idee e i miei interessi e posso vivere la fede nel modo in cui desidero…però sogno ancora di diventare psicologo come mio papà!

 

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