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WAKE ME UP WHEN CALCIOMERCATO ENDS

In lingua cinese la parola “crisi” è la stessa usata per “opportunità” (più, per la verità, “momento cruciale”). Come si può intuire, invece, in italiano no. Anzi. La finestra di mercato si è aperta per la seria A con lo stesso entusiasmo e fiducia che aveva Emily Dickinson: osserviamo il mondo esterno ma meglio non uscire di casa. Il mercato è vasto, colorato di verde, mentre le squadre italiane hanno tinte rosso in bilancio con agenti di mercato mandati in bianco. La bandiera del calcio nazionale sventola poco, sospinta solo da flebili sussurri e roboanti stronzate: il vento è cambiato, punto. Qualcuno dovrebbe ammetterlo, ma si sa, in guerra e in amore vale tutto; così nel calcio, che è un po’ entrambe le cose per molti tifosi (“tifosi” nel senso di malati di tifo, del tifare per una squadra, ignorando cosa siano i concetti di “sport” e “sportivo”; ben distinti, ad esempio, dai supporters, che, appunto, supportano).

«Gli italiani vanno in guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra». Lo aveva detto Winston Churchill e più recentemente lo ha ripetuto Fedez. I tempi passano, ma alcune cose non cambiano: in ogni buona guerra ci sono vittime e carnefici, interessi economici e una stampa che cerca di celebrare se stessa e il proprio paese. Quindi ci si ritrova ad osservare uno sport, una delle prime aziende italiane, il calcio, quello dello stivale, in elevato stadio di decomposizione, mentre tutti parlano dei fiori che potrebbero nascere dal concime. Potrebbero, appunto.
Non perché non piaccia, non vi sia (buona) competizione o interesse. Anzi. In molti casi il confine tra passione e ossessione è labile, senza giudizio alcuno da parte mia.
Il problema non sono la maggior parte gli utenti, cioè quelli in grado di aspettare che il computer si accenda prima di scaraventarlo fuori dalla finestra, o gridargli contro frasi quali: «Elaboratore di dati dal rivestimento non dotato di strato epidermico roseo di merda!». I problemi sono hardware e software.

Software.
Ciò verso cui un utente tifoso si interfaccia: giocatori molto costosi, ben pagati, chiamati a svolgere determinate funzioni. Il tutto con un coordinamento centrale, sempre ed unico imputato del non funzionamento dell’intero processo.
L’allenatore. Rifugium pecatorum di ogni male, in ogni dove e quando. Più che divertente, semplicistico. Riduttivo come pensare che se la tua ragazza non gode a seguito dell’ennesimo tentativo di posizione del Kamasutra, allora la colpa sia del libro indiano e non delle caratteristiche o capacità del giocatore. In questo paese ci sono, ci sono stati e sempre ci saranno più allenatori scarsi che politici trombati da una legge elettorale senza liste bloccate. Ma per avere un buon software è necessario programmare, poter sbagliare per potersi correggere: il che significa che serve tempo.

(Qualcuno ricordi ai presidenti, smuovendoli per compassione se non avviene per competenza, che la disoccupazione è al 13%: non c’è spazio per l’ennesimo allenatore agli uffici di collocamento).

Scontato è che l’unico modo che si ha per avere una buona squadra è quella di spendere bene. Non tanto, ma bene. Però, in mancanza di fondi, non serve essere Zio Paperone per dar fiducia a Qui, Quo e Qua: il futuro sono i giovani (questa frase l’ho già sentita in questo paese). Motori rampanti che devono (meglio dovrebbero) essere guidati, non parcheggiati in qualche sobborgo in attesa di essere trasferiti in autosaloni esteri. Mentre il calcio italiano si dirige sempre più su auto d’epoca: belle, d’un certo fascino e magari senza dover pagare troppo di bollo. Ma quando, dopo un po’, si gira la chiave il motore non parte; oppure quando si è a metà strada ci si rende conto che non è il mezzo migliore per un lungo viaggio tra Italia ed Europa. Ed è troppo tardi. Si rimane fermi in autostrada con un ferro vecchio dal motore fumante, mentre il futuro è diventato il presente di qualcun’altro o è rimasto ai box troppo a lungo perché possa rendere quanto ci si aspettava. Ai margini, si resta fermi ad osservare gli altri sfrecciare via. Ancora, per l’ennesima stagione. Senza nemmeno i soldi per un panino in autogrill.

Hardware.
I tifosi vogliono essere accanto ai propri beniamini quando questi scriveranno la storia, peccato che la tastiera sia rotta. Tanto quanto sono disastrati i nostri stadi. Palinsesti televisivi occupati a elogiare la moviola in campo, perché i direttori di gara non riescono a vedere i “gol fantasma”; mentre a nessuno importa che ci siano più arbitri in campo che tifosi sulle tribune: gli unici fantasmi sono quelli che vanno allo stadio, sempre che ci possano entrare, o che non abbiano paura di farlo. Si continua a parlare di sogni, illusioni e lontane chimere in ogni Studio (che parli di) Sport, tra servizi con musiche all’ultima moda in sottofondo, la rassegna stampa della squadra del Mega Direttore Galattico e selfie. Conditi da alcuni autoscatti, delle frasi su Twitter, foto, profili Instagram e altri selfie. «L’apparenza inganna», perché ci si fa ingannare dall’apparenza. I giornalisti diventano giornalai (con rispetto a chi vende i giornali), gli ex giocatori commentatori tecnici (alcuni, bisogna dirlo, anche abbastanza bravi, altri…) e i vecchi democristiani pluripregiudicati presidenti di questo grande carrozzone.

Mentre tu, «hypocrite lecteur! – mon semblable, – mon frère!» rimani in questa terra desolata, piena di predicatori di salvezza, in un campionato in zona retrocessione. Non è forse questo sognare? Aspettare che le cose cambino, perché in fondo non torneranno come prima, o perché nessuno ha voglia di cambiarle davvero. O perché forse, in fondo, in Italia la parola “crisi” non è la stessa usata per “opportunità”.

[su_box title=”Calciomercato: articolo serio di Angelo Ruggieri” title_color=”#ffffff”]CALCIOMERCATO – Bentornati nel calcio che (non) conta![/su_box]

 

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