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Un courtroom-movie coraggioso: “L’insulto”

Film libanese applaudito e premiato per il miglior attore alla Mostra del Cinema di Venezia e nominato agli Oscar per il miglior film straniero, L’insulto si presenta come un courtroom-movie intenso e ricco. Tutto è al servizio della Storia, del racconto, e la forma del Cinema non è che è un mezzo, un veicolo che si presenta talvolta in maniera un po’ “rozza”. La fotografia diretta da Tommaso Fiorulli è però unita da una linea stilistica molto chiara, caratterizzata da toni caldi che creano subito empatia con la scena e con alcune sequenze di stacco riuscitissime. La regia di Ziad Doueiri è poi precisa e marcata, molto presente e sempre piacevole.

insultQuella curata dallo stesso regista Ziad Doueiri e da Joelle Touma è una sceneggiatura fitta che può prendere forma solo in Libano, patria della pellicola. Un Paese nato su spinta Europea alla dissoluzione dell’Impero Ottomano, dalla Seconda guerra mondiale fino agli anni ottanta il Libano è stato un paese quasi neutrale, un punto di arrivo e rifugio delle migliaia di profughi palestinesi. Tutto parte con una lite da marcapiede, di quelle che in Italia hanno vita breve e restano sul marciapiede dove sono nate, o al massimo diventano storie da raccontare agli amici la sera al bar; ma lì a Beirut il litigio cresce fino a trasformarsi in un caso nazionale, che fa riesumare gli antichi rancori della guerra civile, forse mai davvero seppelliti, e che riapre la profonda ferita etnico-religiosa evidentemente non sanata. La discussione dai toni accesi degenera in seguito ad una frase: Hanno ragione gli israeliani […]. Sharon avrebbe fatto meglio ad ammazzarvi tutti”, che riporta alla mente gli eventi della guerra tra Libano e Israele del 1982. In proposito da riprendere il film Valzer con Bashir, che racconta proprio questi fatti dal punto di vista israelianoinsulte

Il tribunale è il pretesto per raccontare la Nazione, lo specchio in cui si riflette un Paese che non riesce a rimanere unito, luogo di un polimorfismo culturale e religioso sempre teso: la guerra civile dal ’75 al ’90, poi la nuova guerra con Israele ed Hezbollah del 2006, i cui scontri si sono forse fermati ma cui non è mai seguita una vera e propria pace.

Il cast è impeccabile. La performance di Kamel El Basha gli è valsa una Coppa Volpi, ma anche il resto degli interpreti, a partire dall’altro protagonista, Adel Karam, non sono da meno; da ricordare anche l’avvocatessa interpretata da Diamand Abou Abboud.

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Il film presenta una coraggiosissima la presa di posizione: uno degli avvocati afferma come nessuno sia mai del tutto immune dalla colpa, ricordando il massacro perpetrato dalle milizie palestinesi negli anni settanta in una cittadina cristiana nel sud di Beirut. Coraggiosa perché oggi, quantomeno nella cultura benpensante europea, è poco di moda non appoggiare il comune pensiero filo-palestinese. Non per questo va però bollato come un film sionista, perché non lo è affatto. E’ una pellicola che racconta una città, Beirut, abitata da tanti popoli diversi. Un film coraggioso soprattutto nel Libano di oggi, dove il confronto con Israele è molto più fisico e molto meno ideologico, e dove il regista Ziad Doueiri è stato arrestato dopo la Mostra del Cinema di Venezia. L’accusa era di  aver girato il suo film precedente, The attack, in Israele. E questo è considerato un atto di collaborazionismo col nemico (si è già parlato della guerra ancora non conclusa). Gli arresti sono durati solo qualche ora, e il regista è stato rilasciato sull’onda di numerose proteste internazionali.

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