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Filmare il silenzio: i 50 anni di “2001: Odissea nello Spazio”

Un anno e tre mesi prima che l’uomo mettesse piede sulla Luna per la prima volta, il 2 aprile 1968, all’Uptown Theater di Washington D.C., Stanley Kubrick aveva già portato gli spettatori della prima mondiale di 2001: Odissea nello Spazio tra gli abissi del cosmo. 2001 non è certo il primo film di viaggi spaziali della storia. Già nei suoi primi decenni, con Viaggio nella Luna (1902) e Viaggio attraverso l’impossibile (1904) di Méliès Una donna nella Luna (1929) di Lang, il cinema aveva testato la fantasia di registi visionari impegnati a immaginarsi, ognuno a suo modo, avventure e mondi ultraterrestri, conoscendo negli anni ’50 un periodo prolifico per la fantascienza. Ma con 2001, Kubrick ha l’ardire di reinventarsi in chiave realistica il viaggio spaziale, preceduto soltanto dal pionieristico Uomini sulla Luna (1950) di Irving Pichel, stupefacente per l’epoca. Nessuna pellicola era però riuscita a concepire in modo così innovativo la fantascienza nella sua duplicità di fantastico e scientifico, mettendo il primo termine al servizio del secondo, quanto il capolavoro kubrickiano.

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Per Kubrick, con fantastico non si intende tanto ciò che concerne la facoltà di partorire immagini irreali, quanto la capacità di immaginare mondi possibili, di configurare con precisione di calcolo e rigore scientifico quanto pochi uomini, o addirittura nessuno, abbiano provato, per farne infine un’esperienza sensoria collettiva secondo un’idea di cinema puro. Questa fu la vera sfida di 2001, opera enciclopedica per vastità di temi e riflessioni – dai problemi legati allo sviluppo dell’intelligenza artificiale all’esistenza di Dio, dall’evoluzione dell’umanità dopo la scoperta della tecnica al concetto di tempo – cui il regista si approcciò con gli strumenti della scienza più evoluta, per spingersi e spingerci là dove nessun cineasta si era mai avventurato. Ciò che continua a sconvolgere in 2001 è infatti la capacità con cui Kubrick è riuscito a pensare la vita nello spazio, restituendone la sensazione, mostrando l’agghiacciante silenzio siderale in cui il corpo senza vita di Frank (Gary Lockwood) va alla deriva in un nulla abissale (qui sotto potete vedere la scena). Un silenzio che si sente e si vede, ingigantito dal respiro di David (Keir Dullea) all’interno del casco spaziale, terrore puro dell’uomo a confronto con l’infinità dell’universo pronto ad inghiottirlo. L’idea di viaggio spaziale si emancipa da una visione familiarizzante, la vita nello spazio si trasforma in una lotta angosciante dell’uomo contro le forze della fisica e della tecnologia, il vuoto in cui cadono i corpi si fa tangibile. Paradossalmente, Kubrick ha fatto ricorso al massimo dell’accuratezza realistica, sollecitando lo spettatore al massimo della partecipazione, per suscitare il massimo straniamento.

Per ottenere questi risultati, avvezzo a saccheggiare intere biblioteche durante la preparazione di un film, Kubrick chiese la consulenza di 65 società, circondandosi inoltre di trentacinque collaboratori tra artisti e progettisti, una ventina di esperti di effetti speciali, insieme a uno staff di consulenti scientifici (secondo quanto riportato da Jeremy Bernstein durante la sua permanenza sul set del film, ora raccolta in Stanley Kubrick. Non ho risposte semplici, Minimum fax, 2007). Tra loro, si trovava anche Harry Lange, designer e scenografo per l’esercito degli Stati Uniti di origine tedesca. Lange aveva disegnato astronavi per la NASA e la sua presenza fu determinante nella progettazione di quelle tecnologie futuristiche con cui Kubrick immaginò un futuro in parte non troppo lontano. Tra queste i liquipack, contenenti i cibi liquidi mangiati dagli astronauti, un sistema telefonico di videochiamate e i Newspad, anticipatori dei moderni tablet disegnati in collaborazione con IBM. La più grande invenzione di tutte resta il computer di bordo HAL 9000, uno dei villain più inquietanti e al tempo stesso commuoventi che il cinema ricordi. L’occhio e la voce di HAL si impressero così tanto nell’immaginario comune che nel 1999 l’intelligenza artificiale di 2001 divenne il protagonista di uno spot della Apple, per promuovere l’affidabilità dei Macintosh contro i pericoli del Millennium Bug (qui sotto il video). Il consulente più assiduo, soprattutto riguardo agli aspetti contenutistici, fu però Arthur C. Clarke, autore del romanzo 2001: Odissea nello spazio scritto insieme al regista durante la lavorazione del film.

2001 ha cambiato per sempre i canoni della fantascienza, sancendo un prima e un dopo, spianando la strada al cinema fantascientifico dei successivi cinquant’anni, inevitabilmente debitore, da Solaris (1972) a Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), da Gravity (2013) a Interstellar (2014). Ma Kubrick non ha solo alimentato l’immaginario cinematografico con sequenze di immediato impatto, destinate a essere ricordate per la loro pregnanza. Kubrick ha dovuto pensare lo spazio per la prima volta e trovare un linguaggio cinematografico adatto alle sue leggi, per poi scagliarci tra le sue profondità e in esse lasciarci smarrire come corpi alla deriva, nel silenzio.

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