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Reis: l’enorme flop del film su Erdoğan

Domenica 16 aprile, in Turchia, si è tenuto il referendum costituzionale per l’approvazione delle riforme atte ad assegnare potere assoluto al presidente. Il Sì ha vinto sul fil di lana con il 51% dei consensi, per la gioia del presidente Recep Tayyip Erdoğan, nonostante l’assenso inferiore alle aspettative. I risultati però hanno destato fin da subito polemiche: l’opposizione sostiene infatti che molti voti non siano validi, e anzi parla apertamente di brogli.

Per quanto il risultato permetta ad Erdoğan l’accentramento dei poteri nella sua persona e il totale controllo sulla nazione, sulla legge e sull’esercito – già si parla di reintroduzione della pena di morte, revocata nel 2004 – lo scarto risibile, ma tuttavia sufficiente a cambiare il paese, mostra la spaccatura profonda in Turchia tra il presidente e le opposizioni, e gli scontri non sono destinati a placarsi, anzi, la situazione tende a peggiorare.

A sostegno della campagna referendaria per l’approvazione delle riforme e per un Erdoğan dal pieno potere, lo scorso 3 Marzo, nelle sale cinematografiche turche, è approdato Reis, biopic con quale il presidente turco ha cercato di conquistare e convincere il maggior numero possibile di elettori.

Muovendosi su due piani temporali distinti che si intrecciano, discostandosi dai classici film di propaganda che tradizionalmente prediligono la linearità narrativa, Reis mostra l’infanzia del presidente nel difficile quartiere Kasımpaşa ad Istanbul, dove si sono formati il carattere e la persona, e parallelamente la sua esperienza politica, dove invece si è rivelata la natura da leader. Il film attinge ad un linguaggio ed una estetica conosciuti e facilmente riconoscibili dal pubblico turco, ovvero la grammatica delle telenovelas locali – prodotti esportati con successo in tutto il Medio Oriente – e del cinema popolare nazionale nella sua forma più tradizionale del melodramma. Erdoğan adulto, interpretato dall’attore turco Reha Beyoğlu, molto popolare in patria, è rappresentato nel film come un’icona da agiografia: è una apparizione divina, un calciatore dalle eccelse qualità, un amante ed esperto di cinema. Ma il vero fulcro della narrazione, il vero elemento portante, non è la vita politica, bensì il periodo dell’ infanzia: evidente è la volontà di contrapporre una Turchia tradizionale alla Turchia odierna. Qui sta difatti il vero messaggio politico, l’esaltazione della rivoluzione ad opera del presidente: il ritorno alla Turchia pura, in alienazione dalla modernità e diffusamente fedele alla religione islamica, in totale contrapposizione all’occidentalizzazione e alla linea laica intraprese con la rifondazione di Atatürk, eroe nazionale e padre della Turchia moderna.

Reis è stato un investimento da otto milioni di euro dell’imprenditore Temel Kankıran, fondatore della casa di produzione cinematografica Kafka Sör e ammiratore di Erdoğan. Approvato e promosso dal governo turco, il film ha mostrato un presidente amato, un vero esempio per il popolo e, attraverso un finale aperto, ha lasciato la possibilità di proseguire la storia che, nell’idea del produttore, dovrebbe svilupparsi in una trilogia o, perché no, una tetralogia.

Ma, in realtà, non è poi così sicuro che la storia prosegua, dal momento che Reis è stato un flop totale, accolto freddamente dal pubblico e non particolarmente apprezzato dai (pochi) spettatori che sono accorsi nelle sale a vederlo (meno di 200.000 fino alla data del referendum, l’ultimo film del regista turco naturalizzato italiano Ferzan Özpetek, Rosso Istanbul, raggiunse i 400.000, il doppio, nelle prime due settimane di programmazione). Col senno di poi, lo scarso successo della pellicola durante il suo periodo di proiezione avrebbe potuto mettere in allarme il presidente: il risultato del referendum infatti ha confermato i minori consensi, molto distanti dal plebiscito preventivato da Erdogan stesso.

Nonostante tutto, nonostante il flop ai botteghini, nonostante la vittoria con scarto minimo inferiore alle attese, il ritorno del cinema chiaramente di propaganda e l’accentramento dei poteri in un’ottica tendenzialmente dittatoriale rimandano a periodi storici che appaiono impossibili da superare – alla luce altresì dei vari estremisti che ritornano in auge anche in contesti politici pienamente europei – e riportano la Turchia indietro di quasi cento anni (nel 1922 Mustafa Kemal Atatürk, dopo aver deposto il sultano Maometto VI, fondò la Repubblica Turca), cento anni di storia e di evoluzione di un paese.

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