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Un miracolo di nome Wes: “L’Isola dei cani”

Se c’è un autore contemporaneo che si può definire coerente in modo quasi integralista, questo è Wes Anderson. Il quarantanovenne texano sforna pellicole a ritmi regolari da ventidue anni, da quel lontano 1996, anno di uscita del suo film d’esordio Un colpo da dilettanti (Bottle rocket, 1996). Da allora si porta dietro un’estetica paragonabile a un marchio di fabbrica, la cui riconoscibilità, cosa sempre più rara nel mondo della Settima Arte, è immediata e lampante. Tutti abbiamo sentito parlare delle ossessioni di questo regista per le simmetrie, i colori pastello, le scritte in sovrimpressione, ossessioni chiamate in causa tanto dai suoi estimatori quanto dai suoi detrattori. Ebbene, ciò che emerge sempre di più dalla visione dei suoi film, compreso l’ultimo L’Isola dei cani (Isle of dogs, 2018) è una capacità non comune, quasi miracolosa di reinventarsi, insomma, l’opposto della presunta staticità e ripetitività che gli viene spesso imputata. Badate bene, il verbo reinventare non significa stravolgere, bensì mantenere delle tracce estetiche e tematiche, dei fili rossi che contribuiscono a definire il complesso concetto di autore.

Come si è detto, anche il suo ultimo lavoro di animazione in stop-motion conferma l’evoluzione artistica di un regista sempre pronto alla sperimentazione. Nel caso dell’Isola dei cani, la prima cosa che risulta evidente è la contaminazione dell’immaginario estetico occidentale con quello orientale, segnatamente giapponese, a tutti i livelli. Ambientazioni, forme, colori, suoni, perfino la lingua dei personaggi umani rimane quella giapponese, non doppiata e in alcune sequenze perfino non tradotta.
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I grandi riferimenti cinematografici del regista, a sua stessa detta, sono stati due: Akira Kurosawa e Hayao Miyazaki. Il primo per il respiro epico-eroico dei suoi lavori corali, il secondo per l’uso magistrale dei silenzi e i dettagli naturalistici. Ed è innegabile che siamo di fronte ad una classica fiaba che, forte della compresenza di tanti personaggi umani e canini, fa proprio della coralità il suo punto di forza. Alle tematiche famigliari e alla figura dell’eroe per caso, onnipresenti nelle sue trame, Anderson aggiunge un messaggio ecologico che, spinto all’estremo, arriva a sfociare nel politico e nel distopico; si sfiorano argomenti quali la corruzione, la manipolazione delle masse, la demonizzazione di un comune nemico, in questo caso proprio i cani protagonisti della vicenda.

Esteticamente questo film è un trionfo della minuzia: cosa c’è di meglio di un modello artigianale come quelli usati nella stop-motion per esaltare al massimo un dettaglio? Ogni sequenza è dominata da una tavolozza di colori talvolta accesi, talaltra sbiaditi; è ben resa la contrapposizione tra Megasaki, una modernissima e geometrica megalopoli giapponese, e Trash Island, un’isola di discariche e industrie abbandonate, dal sapore quasi cyberpunk. Impossibile non prendere a pietra di paragone Fantastic Mr. Fox (2009), il precedente film di animazione di Anderson, ispirato a tutt’altra mitologia e ad un immaginario più canonico, ma simile nell’affrontare un genere bambinesco con consapevolezza e creatività.

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In sottotraccia, è enorme il lavoro svolto dalla colonna sonora originale del fedelissimo Alexandre Desplat: un tambureggiare incessante e cadenzato, un epico contrappunto a quel che si sussegue sullo schermo, che Anderson definisce “un senso del ritmo totalmente altro rispetto alla tradizione americana”. Coloro che ritengono il Cinema del regista texano solo un capriccio estetico fatto di autocitazioni, un giocattolo che alla fine resta impalpabile al di fuori del suo stesso universo, difficilmente cambieranno idea guardando L’Isola dei cani; dal canto mio, Wes Anderson si conferma una delle menti più feconde del Cinema odierno, capace di aprire, mediante la sua immensa creatività e perizia artigiana, finestre su mondi diversi, paradossali e meravigliosi, specchi tragicomici della nostra realtà assurda.

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