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Shining: la prigione dorata

Quando si parla di Stephen King si parla di uno di quei campioni rari a venire nel deliziarci del loro genio; e, come se non bastasse, ci si è buttato di mezzo un altro campione, di quelli che forse vengono ancora più raramente, dal nome di Stanley Kubrick. Immaginatevi un’opera di olio su tela di un genio come Géricault, un capolavoro di Wagner, e provate a fonderli, come se foste tanto fortunati a godere di quel dono chiamato in psicologia: sinestesia. Colori percepiti come suoni, suoni percepiti come colori, un meraviglioso mix che trascende il piano empirico, e si sviluppa in quel mondo onirico privato, il fanciullo di noi stessi.

Ora pensate a Shining, un capolavoro letterario, un’opera eterna di cinematografia dove al suo interno scorrono un fiume di anime ballerine, tra l’assurdo e il tragicamente reale, che danzano in un loop surreale e screanzato, proprio come la nostra vita. Kubrick ha preso una storia, di per sé, come detto, un capolavoro, prefissandosi un obiettivo che solo pochi possono aspirare ad ambire, più che altro per il coraggio dimostrato, prendendo qualcosa che già era magnifico e trasformandolo in qualcosa di intramontabile.

La storia si svolge in un albergo, ma lungi dal mettermi a farne il riassunto. Ciò che mi preme descrivere è il contorno che definisce la storia. La magistrale interpretazione del Premio Oscar Jack Nicholson è all’altezza di ciò che Kubrick sicuramente desiderava, ma ciò che risulta tanto più innovativo, da sembrar quasi indecente (come quando Copernico sosteneva il suo punto di vista sul sistema solare), è l’impronta che ci ha lasciato Kubrick: il suo vuole essere un affresco sui rapporti umani, lasciando spazio al mistero. È una storia di vita vera, di quelle vite che nessuno vuol sentir raccontare, quelle che si vedono al telegiornale e ti fanno salire l’urto del vomito. Ha affrontato il tema della follia, raffigurando il protagonista come un esempio di essere umano comune (la storia regge sulla premessa che, pur sottovalutando l’importanza della bizzarra casualità, prima di Jack anche Delbert Grady aveva subito quell’infausta sorte). Insomma, Stanley ci ha voluto dire che è qualcosa di inevitabile, che ha lati anche misteriosi, ma quella follia sta in molti di noi, se non in tutti.

È il classico tema del bene e del male che giungono alla resa, rivisto e riadattato. Innocenti e colpevoli che si affrontano nello scontro finale, permettendoci però il lusso della speranza, la voglia di credere in un mondo di luce anziché oscurità. La follia è dietro l’angolo, è la nostra ombra, ma Kubrick vuole relegarla in un hotel, in una magnifica prigione. La scena finale risulta emblematica: l’inquadratura stringe sulla foto appesa al muro, accompagnata dalla musica di Al Bowlly, Midnight, the stars and you, volendo sollevare l’animo dello spettatore, illudendoci di sollievo imminente per il concludersi del climax, provocando strappo profondo e beffardo, trascendendo lo schermo e giungendo nei pensieri più reconditi. È un film che si aggrappa al tuo io, e ti impone di farti domande difficili, lasciandoti per un momento solo con te stesso, così, tanto per provare a capire chi è folle e chi non lo è.

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