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Robert Mapplethorpe e la trasparenza delle immagini

Le fotografie di Mapplethorpe, come tutte le fotografie, non possono che mostrare qualcosa di reale. Rispetto a questa realtà, e come tutte le fotografie, anche quelle di Mapplethorpe devono sottostare ai suoi tempi morti, le inclinazioni imperfette, le pose molli o distratte, gli sguardi vuoti.

La realtà di cui sono fatti questi corpi, nudi modellati in puri volumi o fronti che si sciolgono nel buio retrostante, è comunque una realtà strana. Che Mapplethorpe ha decomposto in forme primitive di vitalità, e poi lisciato e levigato così che la luce si raccogliesse in punti scelti come un gancio o un momento di attesa.

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Lydia Cheng, 1987

“I mean, that is sculpture to me. And that’s one of the point why I’m making it, one of the target is being a sculpture. Without having to spend all of the time modelling with your hands. It’s like inventing sculpture myself with the camera.” 

L’oscenità di alcune fotografie è la componente più nota e vistosa della sua opera: come le scene di peni in erezione e di penetrazioni anali, o i nudi lascivamente scoperti e provocatori. Io ho amato soprattutto i ritratti; che sono i ritratti degli amanti di Mapplethorpe, a partire da Patti Smith, che conobbe giovanissimo nella primavera del 1967 e insieme alla quale visse per alcuni anni al Chelsea Hotel. Poi David Crawland, modello del New Jersey con il quale ebbe la prima relazione omosessuale, il curatore d’arte Sam Wagstaff e tutti gli altri, amanti occasionali e amanti di lungo periodo. Di loro una volta disse:

“The people that have influenced me the most are the relationships I’ve had, the lovers I’ve had in my life. And of course I photographed everyone of them.”

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   Sam Wagstaff, 1979. Curatore di mostre e collezionatore di opere d’arte. Fu amante di R. Mapplethorpe dal 1972. Morì per complicanze legate all’AIDS nel 1987

 

patti smithPatti Smith, 1982       

Poi ci sono i ritratti di modelli e i ritratti su commissione, questi ultimi eseguiti soprattutto nell’ultima parte della sua vita, gli anni in cui, all’incalzare della malattia e alla promessa di una morte imminente, Mapplethorpe oppose un fervore creativo senza precedenti, e una produttività frenetica ed eclettica.

“One day I’ll photograph flowers, the next day I’ll do some fashion work, then some pornography, the next day I’ll do a portrait… You know, I don’t really care”.

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    Two Men Dancing, 1984

Per tutto il tempo in cui ho riflettuto sulla questione di queste fotografie, ho avuto in mente, simile a un retropensiero o comunque nel modo in cui certi motivi musicali si muovono sul fondale della coscienza come animali preistorici, una frase di Breve film sull’uccidere, un film polacco del 1988 diretto da Krzysztof Kieślowski. Un ragazzo appena arrivato a Varsavia finisce in un negozio di fotografia. Ha in tasca la foto sbiadita e rovinata della sorellina nel giorno della sua prima comunione; di lei si saprà in seguito che è morta investita da un trattore. Il ragazzo entra e chiede alla donna nel negozio di poter ingrandire la fotografia. La donna si alza, va nella stanza a fianco. Lui a quel punto, con il viso contratto perché evidentemente per lui la questione è di vitale importanza, le domanda:

E’ vero, quello che si dice, che dalla fotografia di una persona si può capire se è viva o morta?

Ecco qui. Questa frase mi ha tormentato per giorni. Il motivo è che per la prima volta ho ragionato sul dato ambiguo e inquietante che è presente in alcune fotografie. Tra cui quelle di Mapplethorpe, dove questo elemento emerge con una certa costanza e omogeneità in tutta la sua opera, dalle polaroid degli esordi alle costosissime stampe al platino degli ultimi anni. E la ragione è che le sue fotografie, non tutte ma una buona parte, per qualche motivo che io non so definire ma che forse qualcuno più esperto di fotografia saprebbe spiegare, mostrano, accanto a ciò che è presente e reale, qualcosa di assente. Meglio ancora: è come se questi corpi, nell’attimo esatto del loro più feroce scoprirsi, ci informassero della loro assenza.

Così la loro rappresentazione assume contorni conturbanti e magnetici, per la sincronicità dell’infusione di questi due elementi distinti: il senso di una corporeità plastica e marcata, insieme al presentimento che questa stessa corporeità sia protesa verso regioni di anomala realtà, di non-vita.

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Autoritratto, 1988. Robert Mapplethorpe morì il 9 marzo 1989, all’età di 42 anni, per complicanze legate all’AIDS.

Allora ci sembra che tutto il resto, cioè la presenza fisica delle cose così com’è abitualmente percepita, sia in verità un fatto parziale. E che invece questi volti, proprio in virtù del doppiofondo che Mapplethorpe ha creato in essi, ospitino il sapore di una completezza che normalmente non possiedono.

Penso che Mapplethorpe credesse in questa trasparenza delle immagini. Non come a un fatto religioso, o a un sottoprodotto di simbologia mistica. Non si tratta di un “rimandare ad altro”. I corpi sono quello che sono, sempre. Però esistono modi di rappresentarli che esigono in chi li guarda un respiro più lungo del normale. Questo tempo aggiuntivo serve a prendere coscienza di tutte le stranezze di cui ho scritto sopra. E di altre, di molte altre. Per esempio, di come sia possibile che si capisca, dall’istantanea di un corpo fissata in un istante senza tempo, che questo sia fermo oppure in movimento.

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Javier,1985

Tutte le citazioni di questo articolo sono trascritte dal documentario Mapplethorpe: Look At The Picture (2016) di cui consiglio fortemente la visione, per l’accuratezza nel ripercorrere la vita dell’artista e per le bellissime interviste a parenti, amici, amanti di Mapplethorpe, che lo hanno conosciuto di persona e lo raccontano nel modo più intimo e soul-baring possibile. (Impossibile la traduzione di quest’ultimo aggettivo. Due possibili definizioni, come su Dizionario Collins: extremely revealing; confessing intimate thoughts).

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