“Orphan black” e le interferenze tra (cinema) passato e presente: vertigine
Vidi il la figura di Judy la prima volta riflessa allo specchio. Uno spettro, come in negativo: Scottie, al suo fianco, pareva ritirarsi dietro le quinte e lasciare un attimo – uno soltanto – di riflessione. Kim Novak quasi dimentica di essere scritturata per due ruoli, Madeleine e Judy, e venendo a conoscenza di una sua sosia vuole in qualche modo averne esperienza, guardandosi allo specchio un’altra volta, in modo diverso da tutte le volte – le altre. Due immagini semplicemente illusorie, che mai veramente si incontrano. In Vertigo (La donna che visse due volte, del 1958) di Alfred Hitchcock, l’attrice interpreta una sola donna, anch’ella in un certo senso interprete (per una calibrata messa in scena a monte), vittima di una maledizione che pare taciuta (la ghost story), ma che attraverso la suora, un’autorità religiosa mai menzionata, ritorna in auge.
Vidi la figura di Judy per una coincidenza in aula CAM [ndr: il corso in questione è “Storia e critica del cinema”], piano primo del complesso di San Tommaso (Università di Pavia); quel palazzo che preferirei non ricordare se non vicino ad una brutta gru raramente attiva, con le pareti smunte d’arancione e le aule variabilmente condizionate. La coincidenza sono io che non chiudo gli occhi, perché son scemo, sostanzialmente, e avrei dovuto intuire che a parlare di cinema si sarebbe giunti davvero al cinema. E io Vertigo non l’avevo mai visto e quella scena divenne il mio prologo, in medias res. Un ulteriore suggerimento, un vantaggio sommato al repertorio. Il famoso regista, infatti, è solito prender sotto braccio quasi invisibilmente lo spettatore, accarezzargli la mano quando sprofonda paralizzato nei cuscini rossi della sala. Lo fa attraverso degli elementi rivelati, palesi coincidenze. È sempre una coincidenza a risolvere l’enigma.
Neanche gli dei, però, sarebbero crudeli quanto me, se vi dicessi quale fosse l’enigma e quale coincidenza l’abbia risolto. Ritorno all’inizio, all’immagine illusoria, alla sua capacità ipnotica.
Parliamo di un ritratto. Pennellate su tela. Grafite su carta. Anche dita che plasmano il plasmabile. Ho pensato al risultato di questa interdipendenza di strumenti e – trovandomi impegnato a leggere di fantascienza – mi sono chiesto: cosa ne sarebbe di un ritratto nel futuro? Pure: cosa ne sarebbe in un presente altro? Cloni, mi risposi senza parlare (sembra una finzione o è plausibile?) cloni imperfetti alla partenogenesi meccanica, all’impatto con atmosfere differenti, lingue differenti, ruoli differenti. Orfani del buio prenatale, vuoti deragliati, idea ed atto come omogeneità ed irriverente. Cosa ne sarebbe dei cloni, di ritratti talmente reali da camminare, da vivere, respirare, marcire? Penso al signor Dorian Gray che al marciume della sua immagine ha reagito con la follia. E se quella decadenza fosse reale? Per fortuna una donna, Tatiana Maslany, ha ereditato dalla grande Kim Novak il peso di una interpretazione multipla, nelle conseguenze di diverse trasformazioni parallele. E’ attrice in Orphan Black, serie canadese trasmessa da Space e dalla BBC, a partire da marzo duemilatredici, ed oggi alla quarta stagione (tutte pronte in un sol boccone nel meraviglioso mondo di Netflix).
Sarah Manning sta aspettando un treno e poco distante da lei c’è una donna ben vestita (Beth Childs), dagli abiti si ricavano curve che giocano con le ombre e con le luci elettriche: è sera. Un treno ed un annuncio, si prega di allontanarsi dalla linea gialla, un attimo, un passo di troppo. La ragazza non ha niente, immersa in una logica di pacata disperazione, fra le cuffie e la musica. Guarda la donna definita da un pannello luminoso, che si toglie le scarpe un momento prima dei passi nel vuoto, poi l’epifania: le due donne sono identiche, gli sguardi ugualmente carichi e ugualmente devastati, ma una delle due si suicida, mentre l’altra vive due volte.
La bellezza del telefilm abita i personaggi come raramente può accadere. Ed è così che Sarah (la ragazza-madre disastrata) si finge Beth (la poliziotta accusata di omicidio). Tatiana interpreta Sarah, quindi, che interpreta Beth. Più avanti veste i panni di Alison, che più volte farà credere d’essere Sarah, nello stesso momento qualcuno cerca Alison, e sarà dunque Cosima (la scienziata coi rasta) a confondere gli ospiti fingendosi la borghesuccia schizzinosa appena citata. E non sono soluzioni esclusive. Evito pacificamente di citare tutti gli undici cloni (tra cui anche un assassino sovietico allevato da suore ortodosse).
Il gioco d’identità, del riflesso, dell’omogeneità si ripete senza condizioni, ed è giustificato: qualcuno – qualcosa? – , ha prodotto in laboratori centinaia di cloni nel mondo. Perché? Con quale scopo? E’ la domanda alla quale attraverso tutte le stagioni si cerca di rispondere, ma il processo di ricomposizione dei frammenti è un continuo volano da un non senso occulto ad uno palese, da uno palese ad uno occulto (cito liberamente Wittgenstein). La cosa incredibile è che se non non sapessimo chi fosse la donna all’origine avremmo di che dubitarne della sostanziale coincidenza delle parti. Non solo i costumi, ma le espressioni, la cadenza, il lessico ma anche la bellezza di ogni personaggio colpisce lo spettatore (vi dirò che personalmente preferisco Beth, poi in ordine Sarah – anche se troppo arrabbiata per i miei gusti – … non proseguo poiché sarebbe più breve la mia lista della spesa: merendine, yogurt, cereali con inserti rarefatti di cioccolato). Il lavoro di Tatiana Maslany è una vera vittoria, un’immedesimazione totale e molteplice, un lavoro di rigore. I suoi non sono tipi, ma sono intere esistenze umane ed in suo aiuto giunge la voce, l’abitudine di parlare più lingue – ammette l’attrice – che l’ha plasmata su diversi modi di ragionare, di pausare il discorso e di riflettere le parole altrui. Prima di ogni trasformazione sente tipologie di musica differente, le è necessario per resettare la personalità e reimpostarla, per dimenticare dell’illusione a monte, per guardarsi una volta allo specchio e chiedersi “le assomiglio così tanto?” e rimanere in silenzio.
È anche una serie di rumore e silenzio, di poche parole e pagine bianche.
Vogliate allora scusarmi delle incoerenti tante parole e degli altrettanto tirannici spazi bianchi, ma è un conflitto eterno, l’unico, che m’avvicina ad una boccata d’aria, ad una dissoluzione di continuità.