Letteratura

Cosa resta della notte – ricordando K. Kavafis – 2

Ma ora non gli interessa più nulla dei vestiti, / né tantomeno vuole i fazzoletti di seta, / neppure le venti lire, né i venti soldi. // Domenica alle dieci gli han fatto i funerali. / Domenica: è passata quasi una settimana // Lui gli ha deposto i fiori sulla misera bara, / dei bei fiori bianchi, s’intonavano così bene / con la sua bellezza e i suoi ventidue anni. // La sera tornò ancora – a causa di un lavoro, / necessità del pane, – tornò ancora al caffè / dove andavano insieme: un pugnale nel cuore / quell’oscuro caffè dove andavano insieme.

La nostalgia per la giovinezza e per l’ardore non sono mai fini a se stessi, ma producono un grido angosciato, una supplica implorante, che non si limitano al solo vissuto del poeta, ma esalano anche dalle vite quotidiane di semplici comparse occasionali, come quelle di “Bei fiori bianchi, s’intonavano bene”. La resurrezione dal passato non è ciò che si va cercando, piuttosto un’essenza di esso, un’ ἀβροσύνη saffica, ossia una sfumatura di raffinatezza, splendore, mollezza, delicatezza, dolcezza, tenerezza e bellezza del vivere. Ricordare e rievocare sono un filtro, alla greca un “farmaco”, sia un veleno per il dolore che arrecano per il confronto col presente, sia una medicina, un breve momento di oblio, di sollievo e di sogno spensierato; Kavafis presenta solo un caso di parziale fallimento del ricordo, dovuto all’irreversibilità del tempo e alla complessità della natura delle cose: “Che filtro si potrà mai distillare / dalle erbe magiche?”, domandò un esteta. / “Un filtro distillato sulle formule / degli antichi maghi greco-siriani, / che per un giorno o almeno per un’ora / (se il suo potere non dura più di tanto) / mi riporti i miei ventitré anni; / mi riporti il mio amico, l’amor suo, / dei suoi ventidue anni la bellezza? // “Esisterà un filtro basato sulle formule / degli antichi maghi greco-siriani, che, in sintonia col ritorno al passato, / la nostra piccola stanza mi riporti?”. Il senso di tale poetica viene esplicitato in Grigi: Osservando un opale mezzo grigio / mi ricordai di due begli occhi grigi / che vidi, sarà vent’anni fa… // Per un mese ci amammo. / Poi lui partì, credo per Smirne, / a lavorare là. Non ci vedemmo più. // S’è ancora vivo, si saranno imbruttiti gli occhi grigi, / si sarà sciupato il bel viso. // Serbali tu com’erano, memoria. / E, memoria, di quel mio amore tutto ciò che puoi, / quanto più che puoi riportami stasera.

La memoria è davvero ossessiva, tant’è che nei titoli e nei testi ricorrono frequentemente anni, date, età degli amanti, con una precisione maniacale. Tutto si fa annebbiato, naturalmente, ma il tempo scientifico resta lo scheletro indispensabile della rievocazione, la cui carne è la necessità a preservare, ancora un’ultima volta, l’amore, la bellezza, il piacere, senza la pretesa di far vincere loro il tempo. Invece sono l’idealizzazione e la mitizzazione a vincere sulla realtà delle cose e, benché dolorose, ingannano alleviando le paure del cambiamento e della fugacità. Il finale della poesia è un’invocazione all’inebriarsi ancora, alla ritualità del ricordo, alla fedeltà all’esperienza carnale. Gli somiglia. Ma io più bello lo rammento. / Di una sensualità morbosa, / che gl’illuminava l’espressione. A me sembra più bello / ora che l’anima lo rievoca dal tempo. Il tempo inoltre è l’unico in grado di conferire, con la memoria, una completa visione sulle cose. La poesia si fa quindi visione totalizzante, eterna ed eternatrice, è l’unica difesa contro la crudeltà della caducità: Rapido denudarsi della carne – la cui visione / ventisei anni ha traversato, e viene / a rimanere in questi versi.

La maggior parte degli eredi di Kavafis del XX secolo si dedicò al tema della memoria e della nostalgia, come se fosse l’anima imprescindibile della poesia e della cultura neogreca. A partire dai più celebri, unici nobel di tale letteratura, come Elitis, Ma ricordo il tuo dolore / fu un morso profondo sulle labbra / un’unghiata profonda nella pelle là dove s’incide per sempre il tempo e Seferis Non mi bastano i vivi / debbo interrogare i morti se voglio andare avanti. Esistenzialisti minori come Livaditis Siamo prigionieri dell’inesplicabile e dell’eternamente perduto / E quando un bambino guarda estasiato un tramonto, fa scorta di dolore per il futuro e Sarandaris, E le antiche poesie chissà / le inghiottirà il tempo / come inghiottisce i nomi delle amanti, oppure gli eredi di Kavafis della seconda generazione del dopoguerra come Christianòpulos e Aslànoglu, di cui Oggi a mezzogiorno mi sei venuto in mente / tra il fogliame, le spighe e il cielo / perché eri un tocco del mare che verrà dalle finestre a lacerare il silenzio, a catturare la luce/ ma ho pensato tutto è cenere, oppure i crepuscolari come Kariotakis, Uranis, Provo a resuscitare vanamente il passato, / a rivivere gli attimi che passasti al mio fianco, / a ricordare i sogni che facevamo a sera, / nella mia stanza piena d’ombre e di calma stanca […] ma un poco del mio essere insieme a te è scomparso, e Maria Poliduri, Se canto è solo perché mi hai amata / negli anni addietro.

Questa rapidissima campionatura dimostra come la necessità di scrivere per vivere, nella memoria di passato e futuro, sia caratteristica dello spirito ellenico e di una civiltà che, all’epoca dispersa tra Egitto, Turchia, Italia, Medioriente e Grecia stessa, guardava alla gloria del proprio passato, che difendeva ancora la propria purezza e identità dai barbarismi, potendosi coronare il capo solo con la cenere di quelle rose che anticamente celebrava e che la celebravano. Il rimpianto, il dolore, la nostalgia per la perdita del primato artistico, culturale, politico e civile, sul quale si scaglierà soprattutto Panagulis durante la dittatura dei colonnelli, di certo si riflesse sulle coscienze e sulle vite individuali, connaturando ad esse un’improsciugabile vena malinconica, ostinatamente rivolta al passato. Per ultimo Ritsos, uno tra i più contemporanei, morto nel ’90, preme ancora fortemente su memoria, passato, nostalgia: Le mie mani ti ricordano/ più profondamente della memoria. Su rassegnazione, assenza, mancanza: Dicono addio i colori dei tramonti. È tempo di preparare / le tre valigie – i libri, le carte, le camicie – e non scordare quell’abito rosa che ti stava così bene […] quest’estate / con le sue cicale, i suoi alberi, il mare, / con i fischi della navi nei tramonti gloriosi, / coi barcaioli sotto i balconi al chiar di luna / con la sua misericordia ipocrita, sarà l’ultima. Su idealizzazione, perdita, vita: Le poesie che ho vissuto tacendo sul tuo corpo / mi chiederanno la loro voce un giorno, quando te ne andrai. / Ma io non avrò più voce per ridirle, allora. […] Davvero, non scordare quando vai al mercato di comprar mele in abbondanza/ non quelle d’oro delle Esperidi, ma quelle grosse e rosse, che quando affondi / nella polpa croccante i tuoi splendidi denti resta impresso, / come un’eternità sui libri, pieno di vita il tuo sorriso. Vige sempre il principio dantesco per cui nulla è più doloroso che ricordare i tempi felici nella miseria e nulla riassume meglio quanto è stato detto finora dei versi di Kavafis, tratti da Di sera; che vengano solo assaporati, bisogna che vengano vissuti, che siano stati vissuti, e chi lo ha fatto detiene in sé non una magra consolazione, ma l’essenza stessa della decadenza, del tramonto sulle rovine, del trionfo della sconfitta, dell’aver raggiunto il fondo dell’abisso.

Comunque, non sarebbe durata a lungo. / L’esperienza degli anni lo dimostra. Ma la Sorte / vi ha messo fine troppo in fretta. / Fu così breve quella bella vita. / Ma come furon forti quegli aromi, / su che letto stupendo stemmo insieme, / a che piacere abbandonammo i corpi. // Un’eco di quei giorni di piacere, / un’eco di quei giorni ho risentito, / l’ardore della nostra giovinezza; / ho ripreso in mano una lettera / e finch’è mancata la luce l’ho riletta.

Poesie citate senza titolo nel testo, in ordine. Kavafis: Sulla nave, A rimanere. Elitis: L’età del glauco ricordo. Seferis: Stratis Thalassinòs fra gli agapanti. Livaditis: Crepuscolo. Sarandaris: Le antiche poesie. Aslànoglu: Cenere dell’estate. Uranis: Amori che muoiono. Poliduri: Perché mi hai amata. Ritsos: Corpo nudo, L’ultima estate, Parola carnale.

Federico Corradi

Federico Corradi è nato a Brescia il 6 gennaio 1999, è cresciuto a Palazzolo sull'Oglio, dove ha conseguito la maturità scientifica. Attualmente studia Lettere Classiche presso l'Università di Pavia.

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