Cultura

Ogni essere umano è nato per scrivere un libro

Una figura femminile solitaria, che proietta sul terreno bianco una lunga ombra e che indirizza i suoi passi verso una meta ignota; uno sfondo abbozzato che sfuma nei colori di un cielo notturno ammantato di stelle; una scritta, piccola ma capace di avviare una catena di libere associazioni nella mente di ciascun uomo, che recita “ogni desiderio”: è questo il manifesto della quinta edizione del Book Pride, la fiera nazionale dell’editoria indipendente, che si è svolta dal 15 al 17 marzo all’interno della Fabbrica del Vapore di Milano.

Noi di Inchiostro ne abbiamo approfittato per scoprire qualcosa di più, partecipando a due appuntamenti nella mattinata di sabato 16 marzo e scambiando qualche chiacchiera con alcuni editori.

Sebbene l’evento abbia ospitato ben 170 stands, l’ambiente non era per niente caotico, ed era facile orientarsi anche grazie alla disponibilità dei giovani volontari che, con un sorriso, erano in grado di indicare la collocazione precisa di ogni editore. Tuttavia, in un mare di libri e cultura come questo, è bello anche navigare senza una destinazione precisa, per lasciarsi catturare da un titolo provocante, da una copertina concettuale, dal profumo di pagine più antiche di altre. Ed è proprio così che ci siamo ritrovati allo stand di Future Fiction, le cui pubblicazioni puntano ad indagare il rapporto tra uomo e tecnologia. Abbiamo letto trame che facevano riferimento al cambiamento climatico, all’uso di protesi artificiali, e l’editore ci ha detto che la narrativa è uno strumento che permette di portare all’attenzione del pubblico, in maniera piacevole e scorrevole, tematiche legate alle “potenzialità del futuro” che non hanno ancora ricevuto la giusta attenzione, come la stampa 3D, i big data, l’intelligenza artificiale. Il caso ci ha spinto poi verso un tipo di letteratura completamente diversa, quella di viaggio: ma non è di “viaggio tradizionalmente inteso” che si occupa Ediciclo Editori bensì, come è facile intuire dal nome stesso, di percorsi in bicicletta che, a giudicare dall’enorme quantità di volumi esposti, sembrano affascinare tantissime persone! Alla domanda su quali siano i tipi di viaggi più stravaganti, l’editrice ci ha indicato un titolo: Panda o morte, di Marco Rizzini, cronaca di uno spostamento su una Fiat Panda degli anni Ottanta da Verona a Mosca, e ha aggiunto che anche i piedi e i pedali potrebbero essere inclusi in questa risposta, sottolineando come questi “viaggi lenti” siano anche una preziosa occasione di introspezione e di fusione con il mondo che ci circonda.

Il primo incontro, dal titolo Grammatica della narrazione, tenuto da Stefano Valenti (traduttore, autore e insegnante nella scuola di scrittura creativa Mohole), rifletteva su alcuni luoghi comuni a proposito del processo di creazione di un’opera narrativa e approfondiva poi una tecnica nota come show don’t tell.

In primo luogo, si è parlato del concetto di talento, che a detta dei più sarebbe sufficiente, da solo, per scrivere un capolavoro. Ma per scoprire e sfruttare il proprio talento è necessario possedere degli strumenti adeguati, che si iniziano a padroneggiare a partire da una lettura spasmodica e approfondita e da un esercizio costante e quotidiano. E, inoltre, più che di talento, sarebbe opportuno parlare di urgenza di raccontare qualcosa.

In secondo luogo, si è fatto riferimento alla fase di editing di un testo: anche in questo caso, è opinione comune che la scrittura occupi la maggior parte del tempo necessario a creare un libro, quando altrettanta importanza, se non forse maggiore, riveste la progettazione, che permette di avere un disegno generale dello sviluppo della trama, e la revisione, che ad ogni rilettura spinge ad operare correzioni sempre più specifiche, fino al livello delle singole parole. Ha citato il caso di Annie Ernaux, autrice francese, che ha impiegato quasi un decennio per scrivere il Post, e questo spunto si è ricollegato all’aspetto affrontato precedentemente: per dedicare così tanto tempo a un libro, deve per forza essere urgente, anche perché non è detto che riceveremo la forma di riconoscimento sperata.

Infine, siamo approdati allo show don’t tell, un modo di narrare che non si basa sul commento e sulla descrizione delle scene e delle caratteristiche dei personaggi, ma che punta a mostrarle attraverso dialoghi e modi di atteggiarsi: lo scrittore mette sulla pagina una situazione così come si sta svolgendo, ed è il lettore che interpreta a mano a mano ciò che gli viene raccontato, immergendosi così nella storia in maniera più piena e coinvolgente.

Il secondo incontro ha avuto come protagonista lo storico e autore Giovanni Dall’Orto, intervistato da Stefano Bolognini sul libro Gli uomini con il triangolo rosa di Heinz Heger (pseudonimo di Josef Kohout), un’autobiografia romanzata che è stata pubblicata nel 1972 e che ha portato all’attenzione del dibattito pubblico la questione degli omosessuali deportati nei campi di concentramento, che oggi si stimano tra i cinquemila e i trentamila.

Si è sottolineato subito come sia stato davvero difficile fare emergere questa tematica, fondamentalmente per due ragioni: da un lato, perché i campi di concentramento erano nati inizialmente come luoghi di detenzione per i prigionieri politici, la cui “colpa” non poteva essere confrontata con quella dei criminali comuni, tra cui rientravano appunto i “pervertiti” omosessuali; dall’altro lato, durante la Seconda Guerra Mondiale, e anche dopo, il nazismo stesso era visto come strettamente associato all’omosessualità, per via del noto orientamento di Rohm, il capo delle SA (era una questione discussa persino a livello accademico, come dimostra l’esistenza di un’opera quale L’enigma dell’omosessuale della psicanalista israeliana Lévy Valensi). E in Italia? Al fascismo mancava la pungente necessità di eliminare il “degenerato” su cui si basava il nazismo, per cui non era rilevante sapere se una persona fosse omosessuale o meno, l’importante era che non desse scandalo (altrimenti, in questo caso, sarebbe stato mandato al confino) e che si sposasse: dunque venivano promulgate le leggi sul matrimonio (come ad esempio quella che prevedeva la tassa sul celibato) perché la famiglia era il nucleo sul quale doveva basarsi la società italiana.

Infine, Dall’Orto ha aperto una finestra sul presente, valutando la possibilità che gli eventi di discriminazione del passato possano ripetersi nello stesso modo ed evidenziando che oggi, ad esempio, usiamo il termine razzismo come una “categoria morale”, mentre una volta era una vera e propria scienza, i cui risultati venivano insegnati persino nelle scuole e alla quale faceva capo il darwinismo sociale, che poi è stato la base teorica per l’ideologia nazista. Dal suo punto di vista, per poter riproporre un fenomeno del passato, devono essere presenti le stesse condizioni, e attualmente per fortuna non ci sono, nonostante qualcuno stia lavorando per cambiarle.

E, pur avendo assaporato solo una piccola portata dello straordinario “banchetto” che la fiera offriva, abbiamo colto varie forme di desiderio che portano un individuo a prendere in mano una penna: la pressante voglia di esternare il proprio mondo interiore, un intento educativo e di informazione, la sfida a rendere palpabili sulla carta paesaggi e sensazioni di un viaggio, la spinta a testimoniare esperienze tragiche e complesse della Storia. E, a tal proposito, una citazione tratta dal libro La Prova di Agota Kristof (scrittrice ungherese a cui si è fatto riferimento nel primo incontro), ci è sembrata racchiudere il senso di questa mattinata: “Sono convinta che ogni essere umano sia nato per scrivere un libro, geniale o mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia”.

 

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