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Recensione / Il lato positivo

di Andrea Viola

Ci si chiede spesso dove risieda il confine tra normalità e follia. Ma non ci si domanda mai se questa differenza esista davvero; e se esiste, quanto è labile il loro confine?
Silver Linings Playbook, reduce da ben 8 nomination agli Oscar (di cui una sola portata a casa, peraltro dalla bella e talentuosa Jennifer Lawrence come miglior attrice protagonista), si presenta all’occhio dello spettatore già in partenza con un merito: l’essere una commedia indipendente, con un’anima essenzialmente sentimentale, capace di imporsi nei più importanti festival internazionali al punto di farsi strada anche in mezzo ai “big” degli Academy.
Adattamento cinematografico del best seller di Matthew Quick L’orlo argenteo delle nuvole, la pellicola di David O’Russel dipinge quello che sembra essere un grazioso quadretto raffigurante il tipico quartiere residenziale dell’America bene: abitazioni eleganti con giardini curati, famiglie in pieno stile “Mulino Bianco”, lussuose vetture parcheggiate lungo impeccabili vialetti. Eppure è fin troppo facile immaginare ciò che si nasconde realmente sotto questo impalpabile velo di perbenismo. Una bomba a orologeria pronta a scoppiare.
All’estremo opposto, quasi in un angolo, all’ombra di questa opprimente “normalità”, cercano di muoversi, in qualche modo, Pat (Bradley Cooper) e Tiffany (Jennifer Lawrence): un bamboccione affetto da bipolarismo, uscito da una casa di igiene mentale dopo aver picchiato a sangue l’amante della moglie e una giovane vedova, con un trascorso di dipendenza dal sesso come risposta ad una depressione senza fine. Pat e Tiffany si incontrano: si scrutano, si osservano, discutono amabilmente di psicofarmaci (sorta di linguaggio esclusivo e precluso a tutti gli “altri”); si inseguono, si scontrano, urlano, ridono e piangono. La loro è una comunicazione fisica, priva di filtri: Pat e Tiffany esprimono tutto ciò che sentono senza reprimerlo, mettendosi a nudo, in una sorta di terapia reciproca ad alta deviazione standard, che prevede la partecipazione ad una gara di ballo come veicolo di riconciliazione, con se stessi e con il mondo circostante.
Eppure, nonostante le corse con indosso un sacchetto della spazzatura, l’ostinata ripetitività dello slogan “Excelsior” (frutto di una psicanalisi che spinge ad osservare la vita in modo stucchevolmente ottimistico) e libri che volano fuori dalla finestra per colpa di finali del tutto inattesi, è il mondo che circonda Pat e Tiffany a manifestare evidenti segni di isteria e schizofrenia. Madri e mogli deboli e sottomesse, padri e mariti pronti a rovinarsi la vita in nome dei soldi e del potere, amici ipocriti e sull’orlo di una crisi di nervi.
In questo vortice di ordinaria follia, Pat e Tiffany appaiono come mostri dai quali tenersi alla larga, ma nelle loro sagome dai contorni così difficili da etichettare c’è molta più sincerità e desiderio di serenità ed affetto che in coloro che li circondano.
Il confronto tra l’ingenuità infantile di Pat e la disinibita sfrontatezza di Tiffany, con una grande vulcanicità ad accomunarli, porta ad un finale estremamente telefonato che svela, in un certo senso, la natura sentimentale e riconciliativa di una commedia estremamente “piaciona”: l’apprezzabilissima prima parte, folle ed esplosiva, impreziosita da un montaggio frenetico nei momenti di delirio, cede pian piano il passo ad un ritmo leggermente più “stanco”, forse a voler meglio evidenziare il raggiungimento di una maturità e di una consapevolezza necessari a mettere ordine nelle vite dei nostri due protagonisti. Essenza di ciò che vorremmo essere realmente, ma che teniamo sopita per meglio recitare la parte che viene assegnata a ciascuno di noi.
Quello di fronte al quale sembra volerci mettere di fronte il regista è un dubbio non da poco: lucida follia o  insana normalità? La risposta è dentro ognuno di noi.

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