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Le Recensiony | The Lobster

Lasciate che vi introduca una personale rubrica con cadenza casuale dal titolo “Le Recensiony”. Prima che possiate darmi dello sgrammaticato, io sono Antonio, in arte (?) Tony. Recensi-ony. Terribile? Avete probabilmente ragione, quindi leggete quel che ho di sensato, o meno, da dire su film che mi hanno colpito e lasciatevi consigliare sulle pellicole messe un po’ in disparte dal grande pubblico. Prometto che eviterò di parlarvi di film terribilmente noiosi, e rimarrò per quanto possibile sui tendenzialmente noiosi. Sono ben accetti, e anzi esortati, i commenti, i pareri, i vostri pensieri personali sull’argomento ma anche proposte di vario genere. Possibilmente inerenti al cinema.

Se dovessi paragonarlo ad una giornata, questo film sarebbe il pranzo della domenica con i parenti. Sì, con quel genere di parenti che ti chiedono: e la fidanzatina? Oppure sarebbe una di quelle crociere per single disperati. Brividi, eh?

Queste più o meno sono le due dinamiche che regolano il mondo immaginario (?) di The lobster di Yorgos Lanthimos: una società che ci vuole sposati, delle strutture che ci forzano a farlo.

In apertura infatti troviamo il panzuto Colin Farrel, David, che compila una scheda come se fosse su un sito d’incontri; al suo fianco vediamo un cane che porterà l’attenzione su di sé, ma il discorso si sposterà sul fratello del protagonista senza apparente motivo. Il motivo, capiremo poi, è la soluzione all’enigmatico titolo, che viene presto svelato ma non di meno sarebbe un peccato rivelare ora una tale peculiarità. 

Siamo di fronte ad una realtà distopica in cui la solitudine non è accettabile. Di contro è perfettamente ammessa l’omosessualità. Che ci sia un messaggio di fondo sul quanto sia arretrata la nostra società anche rispetto ad un simile mondo? La solitudine è poi così fugata che qualunque tipo di piacere privato e personale è vietato, tanto da rendere inermi le mani e quindi impedire di scaricare le proprie pulsioni, che anzi vengono stimolate giorno dopo giorno da cameriere che non fanno però gli straordinari, lasciando quindi il lavoro sempre a metà. Ecco, questa parte la lascerò quanto più ambigua possibile.

Dicevamo che la solitudine non è accettabile e proprio per questo esistono strutture in cui poter conoscere altre persone, in cui essere messi sul palco come merce pronta alla vendita. Palco sul quale spesso si finisce a raccontare la propria vita distrutta proprio da quella politica matrimoniale innaturale che trasforma chi non vuole abbracciarla. Esattamente come merce, poi, le persone sono solo numeri o perifrasi. Numeri delle stanze, perifrasi di una propria qualità fisica. Il solo nome riconoscibile come tale è quello del protagonista David, gli altri non vengono chiamati ma vengono solo indicati come “la donna miope” o “la manager dell’hotel”. Il tutto ancora una volta coopera alla disumanizzazione della società. Il terrorismo psicologico sfocia poi in violenza fisica, e se prima viene instillata la paura di rimanere soli, che porta alla necessità di legarsi, successivamente si viene puniti per aver tentato vie alternative.

La pressione diviene sempre più palpabile e la paura delle conseguenze è tale per cui si tentano i più brutali espedienti pur di trovare quel particolare che possa anche lontanamente accomunarci. E allora la rottura di un naso diventa in pochi giorni amore profondo e comprovato. Non manca inoltre una certa ironia grottesca che decontestualizzata sarebbe anche ilare, ma qui non fa altro che mettere la pelle d’oca. Una frase irriverente quale “se non riuscirete a superare gli eventuali conflitti, vi manderemo dei figli. Di solito aiutano”, diviene così una spada di Damocle.

Si parla continuamente di amore, di coppie, ma mai con sentimento. Le voci stesse non hanno praticamente sfumature se non il turbamento che ne traspare, una sorta di febbre sociale che le porta a tremare.

Giunti al giro di boa della bobina, fingiamo che ci sia ancora, il film cambia. Il set è ora il bosco intervallato dalla città. I colori passano da azzurri a grigio-marroni. Ma le dinamiche sono le stesse, seppur diametralmente opposte, allo specchio.

Fra i ribelli, i cosiddetti solitari, le cose sono l’esatto inverso; il contatto non deve esistere, semplici conversazioni destano occhiate di sospetto e il potere è retto da una donna che abbraccia con lo stesso sentimento che si percepiva nella struttura. Nessuno.

Il messaggio è chiaro. Il regista ci presenta due poli completamente agli antipodi, non esistono mezzi termini. “44 0 45, non ci sono vie di mezzo” dicono parlando di scarpe, ma non solo.

È un mondo distopico non distante temporalmente da noi, benchè non venga mai specificato. Un mondo che punta alla preservazione della specie piuttosto che alla sua realizzazione. Si nega l’individualismo da una parte e la natura umana dall’altra. La mancanza di libertà è pari in entrambi i casi, le punizioni sono le stesse seppur per cause antitetiche. È un film angosciante, da vedere senza aspettarsi dell’intrattenimento. Non intrattiene. A meno di non considerare intrattenimento il rimuginare sui temi del film con una certa desolazione e mancanza di fiducia nel prossimo. Ma non di meno è da guardare. Nessuno è santo, tutti son pronti a tradire alla prima occasione e quel che importa è essere omologati. E per ciò alla fine David, sfuggito alla pazzia boschiva, tenta forzatamente di ristabilire quella connessione che aveva perso, mutilandosi fisicamente e moralmente, non capendo di non aver bisogno di un simile appiglio per poter amare.

Come detto poc’anzi, è una realtà che cerca di instaurare una necessità a legarsi, ma è un cappio che la società stessa si è annodato e a cui si sta impiccando, dopo essersi scavata la fossa da sola.

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