AttualitàStoria

Perché la Bosnia rischia la guerra

Il 22 ottobre di quest’anno Christian Schmidt, l’Alto Rappresentante per la Bosnia-Erzegovina, ha presentato al Segretario Generale dell’Onu e quindi per estensione al Consiglio di Sicurezza il suo rapporto riguardo alla situazione di molto plausibile esplosione di un nuovo conflitto nel tristemente noto Paese balcanico. La situazione è drammatica, a maggior ragione dopo le tensioni in Montenegro dell’ultimo anno, in cui la retorica di divisione etnica ha raggiunto parossismi senza precedenti dal conflitto jugoslavo. Secondo Schmidt e altri osservatori, la Bosnia non è mai stata così vicina ad una divisione, con una quasi sicura esplosione di un nuovo conflitto. Ma come mai la situazione è peggiorata tanto?

La guerra in Bosnia (1992 – 1995)

Il 14 dicembre 1995 a Dayton, in Ohio, i Capi di Stato e/o di Governo di diversi Paesi (USA, Germania, UK, UE, Croazia, Bosnia-Erzegovina e Jugoslavia) firmavano il trattato che metteva ufficialmente fine al conflitto militare in Bosnia- Erzegovina, in cui i gruppi militari dei croati, dei bosniaci e dei serbi si stavano dissanguando da quasi quattro anni. La guerra in Bosnia è il più tristemente noto dei conflitti che hanno sfaldato la Repubblica Federale di Jugoslavia, in quanto il primo caso di esplicito genocidio in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale. Ancora più drammatico il bagno di sangue se si considera che i partigiani jugoslavi erano stati presi come esempio di fratellanza fra popoli contro le spietate politiche di pulizia etnica operata dai nazisti (uno dei motti semi-ufficiali della Jugoslavia era infatti “Fratellanza e Unità”). Non era la prima volta che i Balcani diventavano teatro di nazionalismi fanatici e brutali: la Prima Guerra Mondiale era scoppiata anche in parte per le tensioni nei Balcani (come disse Bismark, l’inevitabile guerra europea fu “a causa qualche maledetta pazzia nei Balcani”) e durante la Seconda le violenze fra i vari gruppi etnici non erano mancate: i serbi più nazionalisti e i croati più intransigenti (con la sponsorizzazione dell’Italia fascista) si erano mutualmente sfidati a superarsi per violenze e rappresaglie. Eppure, nel periodo compreso fra la conclusione della Secondo conflitto mondiale e gli anni ’90 la situazione era stata complessivamente pacifica, e l’unico caso degno di nota riguardo all’etnia si era avuto con gli italiani e il controverso caso delle foibe.

bosnia-dayton
Dopo gli accordi di Dayton (carta via Limesonline.com)

Con la morte però del dittatore/simbolo nazionale Tito e soprattutto con la crisi del comunismo, la situazione in Jugoslavia precipitò molto in fretta: la situazione economia (in primis l’inflazione e un mostruoso debito pubblico) esacerbò le tensioni razziali mai sopite. La struttura politica della Jugoslavia, se si esclude il ruolo più o meno esplicito di monarca di Tito, era un complesso sistema federale-direttoriale simil Svizzera proprio per evitare una situazione di vantaggio di un gruppo a spese di un altro: Federazione di Repubbliche, quindi, più alcune regioni autonome de facto equiparate a Stati Federali (di queste la più celebre quella del Kosovo). La già grave situazione economica divenne insostenibile a causa dell’apparato di potere burocratico jugoslavo, funzionale fino a quanto Tito lo dirigeva, ma corrotto ed opportunista senza di lui: un giovane dirigente della Lega dei comunisti jugoslavi (il Partito unico) di nome Slobodan Milošević approfittò della situazione. Lo sviluppo della vicenda è estremamente complesso e sarebbe necessario un lungo approfondimento, ma un buon riassunto potrebbe essere: la crisi economica peggiora, lo Stato crolla e il nazionalismo etnico esplode.

Il primo conflitto jugoslavo è (relativamente) indolore: la guerra di indipendenza slovena. La Slovenia era la parte più ricca della Jugoslavia e la meno diversificata dal punto di vista etnico: la preparazione degli sloveni fu ben realizzata e rapida, e a nessuno degli altri costituenti della Federazione interessava la Slovenia. La situazione divenne molto più violenta con la questione di Croazia e Kosovo. L’area centrale della Jugoslavia non era omogenea dal punto di vista etnico; pertanto, una divisione ipotetica del Paese non avrebbe potuto essere indolore. In praticamente nessuna delle repubbliche costituenti c’era omogeneità, persino nei territori con una maggioranza etnica le minoranze erano in rapporto enorme (soprattutto se si pensa ai Paesi occidentali). La radicalizzazione del dibattito pubblico e l’opportunismo politico di molti attori assunsero dimensioni sempre maggiori e la violenza dilagò ovunque. In Bosnia però si raggiunse il culmine: i bosniaci serbi intrapresero prima una pulizia etnica (l’espressione nacque proprio in Bosnia) e non furono i soli, ma con loro gli atti divennero genocidi, e a Srebrenica 8000 musulmani bosniaci vennero uccisi. Diffusissimi furono gli stupri di guerra, usati come vero e proprio strumento di offesa, e in alcuni casi addirittura pare i vicini violentassero quelle che fino a pochi giorni prima erano state delle conoscenti. Vista la situazione drammatica la NATO, con il supporto dell’ONU, decise di intervenire. Successivamente (e questo fu più controverso) intervenne anche in Kosovo, senza però il supporto delle Nazioni Unite. Al di là dell’aspetto etico e delle controversie i bombardamenti della coalizione ebbero come effetto la firma degli accordi di Dayton, e qualche tempo dopo Milošević venne rovesciato da una rivoluzione popolare e condotto insieme a molti altri all’Aia di fronte al Tribunale Internazionale.

Un uomo visita le lapidi dei morti a causa del genocidio di Srebrenica (foto di Danilo Krstanović)

L’accordo di Dayton e la fine (momentanea) della guerra

L’accordo di Dayton sancì una situazione di stallo effettivo: mentre Croazia e Serbia, anche a causa delle sopracitate pulizie etniche, hanno realizzato Stati etnicamente più o meno omogenei, pur con forti minoranze, e più o meno funzionali, la Bosnia-Erzegovina è stata nella pratica “bloccata” nel tempo: essa è divenuta un protettorato internazionale sotto osservazione continua dell’ONU, il cui Alto rappresentante ha un vero e proprio potere di veto nel Paese. Il Paese è gestito da un ufficio di Presidenza di tre Copresidenti: un bosniaco, un serbo e un croato, in una versione in miniatura della struttura governativa jugoslava. Il Paese è inoltre una Federazione di 2 Stati costitutivi: la Federazione di Bosnia-Erzegovina, un’unione di bosgnacchi (musulmani) e croati e la Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina. Esattamente come il Libano, un altro Stato su tutte le pagine di cronaca internazionale, per il Paese si pensò ad una soluzione di stampo comunitarista, efficacie su breve termine ma devastante sul lungo. Innanzitutto, i croati sono estremamente sottorappresentati dal punto di vista politico a differenza di bosgnacchi e serbi, mentre di contro la parte serba è, sotto il punto di vista amministrativo, praticamente indipendente. Praticamente è il termine centrale, perché il contrasto fra la (percepita) centralizzazione e un’entità politica sempre più autonoma è tremendo: la repubblica serba infatti sta tentando in questi giorni di dotarsi un esercito indipendente e di rendere praticamente impossibile lo svolgimento dell’attività pubblica. Esattamente come la Jugoslavia, il sistema di governo collegiale è facile strumento di veto e di abuso, soprattutto in quanto una delle due entità costitutive è stata responsabile di violenza a danno dell’altra. Le guerre jugoslave sono state anche un fondamentale teatro della politica internazionale: non solo la “normale” lotta fra potenze ( l’Occidente contro la Russia) ma anche il nuovo modo di condurre i dibattiti pubblici e le relazioni fra gruppi parastatali: tutto il dibattito sull’interventismo, sulla politica post-fatti e la relazione media-terrorismo ha forse trovato la sua culla proprio nelle brutali terre balcaniche, persino la lotta alla “sostituzione etnica” e ai musulmani sembra che abbiano avuto un notevole impulso anche dai fatti jugoslavi. L’attuale leader degli elementi più intransigenti dei serbi e uno dei tre copresidenti della Bosnia, Milorad Dodik, ha già usato uno degli elemeti prediletti della politica (soprattutto europea) contemporanea: le relazioni con tiranni amici che possono fungere da quinta colonna contro eventuali prese di posizione (nell’ UE. Slovenia e Ungheria).

La frantumazione politica, amministrativa e culturale

Due gravi ostacoli ad una pace continuativa per i martoriati territori dei Balcani sono la situazione socioeconomica e quella politica, intimamente intrecciata. Neppure Slovenia e Croazia, pur essendo nell’UE, sono riuscite ad uscire completamente dalla difficile situazione economica pre-guerre jugoslave, e virtualmente tutti gli ex Stati membri sono ancora toccati dal punto di vista demografico ed economico dalla mancata ripresa, accentuata da sanguinosissime guerre: la Serbia ha la popolazione più bassa dal 1964. Questa situazione è chiaramente terreno fertile per lo sfruttamento della disperazione umana da parte di ogni movimento politico, e in queste terre è spesso così: l’ormai celebre espressione rossobrunismo, l’alleanza fra movimenti di estrema destra e di estrema sinistra, trova la sua massima espressione proprio nei Balcani; il recentemente scomparso Eduard Limonov, fondatore del Partito Nazional-Bolscevico russo, venne immortalato proprio mentre sparava contro Sarajevo per le truppe serbe. Molti movimenti politici si definiscono di Terza Posizione o richiamano “i bei tempi andati” dei regimi comunisti, dove c’era sì la dittatura, ma anche il pane. Milosevic del resto era il leader del Partito Socialista serbo in coalizione con il Partito Radicale Serbo (di estrema destra) e spesso lui e i sui oligarchi utilizzavano la retorica della lotta antimperialista occidentale, in alcuni casi supportati esplicitamente da gruppi in Occidente: in Italia il più famoso è stato Costanzo Preve, mentre in Gran Bretagna LM (Living Marxism) che oggi è il giornale di estrema destra Spiked, dovette chiudere dopo che perse la causa per aver accusato un canale televisivo britannico di aver falsificato i reportage sul genocidio bosniaco. In generale i più anziani supportavano Milosevic, mentre i più giovani protestavano. Persino Dodik è (nominalmente) socialdemocratico ed iniziò la sua carriera politica come un moderato dell’Unione delle Forze Riformiste di Jugoslavia, il partito di centro-sinistra contro il nazionalismo che voleva salvare una Jugoslavia democratica e federale.

Un ritratto di Slobodan Milosevic viene portato a una manifestazione (foto via Balcanicaucaso.org)

Il problema è dunque anche culturale: anche dopo la Seconda Guerra mondiale ci sono state delle controversie riguardo al dibattito sull’Olocausto, e in Germania il 1968 è stata anche una protesta dei giovani contro l’incapacità dei loro padri e nonni di ammettere le proprie responsabilità. Nell’ex Jugoslavia il genocidio è l’argomento che divide e polarizza più di tutti: quasi tutti i politici serbi lo negano ed alcuni celebrano anche chi lo ha perpetrato. Persino molti di quelli che ammettono il massacro sono restii ad ammettere che sia stato un genocidio. La proposta di legge che riconosce Srebrenica come un genocidio ha causato una scissione nella maggioranza tendenzialmente filoserba e la dimissione del Ministro della Giustizia. Infatti, una dei temi più caldi in Bosnia riguarda il curriculum scolastico: inserire o meno Srebrenica nei libri di testo. Malgrado i processi dell’Aia, non c’è stata una sorta di denazificazione dalle violenze in Jugoslavia, anche i serbi sono stati spesso demonizzati e da un approccio più veritiero e consapevole potrebbero trarre un beneficio, visto il ruolo fondamentale degli attivisti per la democrazia serbi nella conclusione della guerra, nella speranza di pacificare anche un poco territori massacrati da decenni di violenze.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *