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William Kentridge: cortometraggi per ricomporre il mondo

William Kentridge, nato a Johannesburg il 28 aprile 1955, è una figura di rilievo nell’arte contemporanea ed è principalmente noto per disegni, incisioni e film di animazione, realizzati a partire da schizzi in carboncino che spesso fungono da sfondo per rappresentazioni teatrali.

William Kentridge
William Kentridge

Le origini sudafricane sono un fattore onnipresente all’interno della sua produzione, nella quale si ritrovano tematiche relative alla propria storia personale combinate a contenuti politici e sociali come l’apartheid, il totalitarismo e il colonialismo, affrontati con una leggerezza per nulla superficiale e con affascinante originalità.

Non di rado frammisti a stasimi onirici o comici, personaggi e concetti prendono vita all’interno di cortometraggi formati da disegni in divenire, sottoposti a continue cancellature e rifacimenti, i quali sono forse la parte più importante della sua creazione, in quanto conferiscono alle figure un’impressione di non-finito che ne evidenzia l’imperfezione e l’incessante mutamento, a rappresentazione di una realtà sfaccettata e spesso contraddittoria.

Questo è un processo che permea l’intera poetica di Kentridge, secondo il quale “La ricerca di un artista consiste nello smantellare il mondo, per scomporlo in frammenti e ricomporlo in una veste diversa: ogni giorno rimodelliamo il mondo in noi stessi, assumendo pezzi di conversazioni telefoniche e di altri pensieri, fino a elaborare una versione di noi da mostrare agli altri.” Tale operazione di assemblaggio è spesso rivolta ad un vasto raggio di discipline artistiche, ad esempio musica, teatro e letteratura: la reciproca interferenza si rivela un modo efficace di conferire freschezza e spessore ai temi trattati. 

Un valido esempio di compenetrazione di generi è costituito dal filmato presentato in occasione della VI Biennale di Istanbul (1999), Shadow Procession: l’opera, della durata di sette minuti, è suddivisa in tre sezioni ed è in gran parte costituita dalla sfilata di un corteo di ombre che si sovrappongono, si accavallano e producono a loro volta altre ombre con le quali si mischiano. 

William Kentridge Shadow Procession
Immagine tratta dal filmato Shadow Procession (1999)

Se nella prima sezione i protagonisti sono umani (uomini a piedi reduci da una città distrutta, uomini mutilati, minatori in allusione alle condizioni di lavoro nelle miniere sudafricane), nella terza si assiste alla sfilata di oggetti dalle forme antropomorfe, ibridi che poco a poco entrano a far parte della mitologia di Kentridge.

La musica che accompagna la processione dai tratti grotteschi è dilatata e malinconica: si tratta di amanedhes, melodie simbolo dell’eredità culturale greco-turca, utilizzate in omaggio al cantante turco Antonis Dhiamantidhis, in arte Dalgas (1892-1945) e dedicatario dell’evento, da una cui registrazione nacque l’idea di Shadow procession. Le silhouettes sono ispirate a quelle del teatro d’ombre mediterraneo, un’antica forma di spettacolo popolare che prende il nome dal personaggio principale Karagöz (letteralmente “occhio nero”) e che ebbe larga diffusione dall’impero ottomano fino ai giorni nostri.

Il motivo dell’ombra compare spesso nella produzione di Kentridge: egli stesso si definisce un “antiplatonico”, in riferimento al noto mito della caverna, rifiutando di fatto una visione che declassa l’ombra come totale oscurità e attribuendole invece il valore potenzialmente didascalico di veicolo di una qualche verità alternativa e complementare a quella della luce.

In Shadow Procession, tecnica e scelta formale arrivano dunque a sovrapporsi all’aspetto concettuale: oggetti e corpi subiscono cancellature e rifacimenti che recano con sé i vari passaggi del processo di creazione. Questo effetto è volto a inserire fatti e personaggi all’interno della stratificazione della storia, dalla quale si può essere accantonati, ma mai del tutto esclusi. 

Nella sezione centrale, più statica, la figura dominante è Ubu re, un personaggio appartenente all’omonima opera teatrale del francese Alfred Jarry (1873-1907): considerato l’inventore della patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie, Ubu funge da fulcro interpretativo della narrazione ed è espressione del motivo politico che spesso si ritrova nelle opere di Kentridge.

La figura di Ubu, pur rimanendo di fatto un emblema di vanagloria,  si presta bene a diversi contesti di narrazione: è infatti presente nell’opera teatrale Ubu and the truth commission, realizzata in collaborazione con lo scrittore e sceneggiatore sudafricano Jane Taylor nel 1997. Lo stesso personaggio non appare sotto forma di ombra, ma funge da simbolo dei numerosi strumenti di violenza impiegati nel regime dell’apartheid, impersonando un poliziotto corrotto pagato per torturare e uccidere attivisti e dissidenti. Lo circondano una serie di marionette, testimoni delle molteplici angherie subite davanti all’organo istituito nel 1995 per sanare le ferite della segregazione razziale, la Commissione di verità, da cui il filmato prende il nome.

Scena tratta da Ubu and the truth commission (1997)

Il tocco di Kentridge, evidente in disegni animati, musiche e oggetti di scena, contribuisce a completare l’atmosfera aggiungendovi una vena intima e volutamente crudele. 

Un altro momento della sua ricerca vede la scelta di un personaggio particolarmente importante per la letteratura italiana del primo Novecento: Zeno Cosini (dal romanzo La coscienza di Zeno, 1923), è il protagonista di Zeno Writing (2003), un cortometraggio di 11 minuti diviso in cinque sequenze interamente ispirato al testo di Svevo. L’artista ha ammesso di riconoscere parzialmente sé stesso nel carattere incerto di Zeno, un’incertezza spesso frammista alla cecità verso quello che ha davanti, una condizione che però si presta come filtro di un nuovo approccio al mondo, distruggendo l’ordinario e il consolidato. 

Nell’imminenza del crollo dell’impero austro-ungarico, poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, Zeno rappresenta l’uomo di inizio Novecento “fermo sul bordo di un di processo storico sul punto esplodere, fermo mentre aspetta che avvenga lo scoppio”. Proprio sulla chiusura lo spettatore è chiamato in causa da un’improvvisa allocuzione: “Smoke, Ashes, Fable? Where are they all non? Perhaps they are no longer even fable”

William Kentridge, Zeno Writing (2003),
Immagine tratta da Zeno Writing (2003)

Giunto al momento di riflettere sul proprio compito di artista come parte attiva nella società moderna, Kentridge si rifà a Gabriel Garcia Marquez rigettando il dovere etico della denuncia politica. Limitarsi alla propria arte non significa però alienarla dal mondo in cui è irrimediabilmente immersa, ma usarla come mezzo per una rielaborazione della storia personalmente vissuta o più generale, anche nel caso fosse terribile.

In un’intervista rilasciata ad “Art e Dossier” afferma l’impossibilità di non essere toccati e sporcati dalla storia “ e una delle cose che si possono fare è cercare di resistere. E celebrare il lavoro artistico come un luogo per la libido, per l’eccesso, per il non sapere, per l’incomprensione, per l’errata traduzione”.

Maria Bovolon

Maria Bovolon è nata il 4 maggio 2000 a Legnago. Laureata triennale in Lettere Classiche, è ora iscritta alla magistrale di Storia Globale delle civiltà e dei territori presso l'Università di Pavia. È alunna del Collegio Ghislieri.

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