Attualità

Intorno alla questione indipendentista catalana

Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza circa questa tanto discussa questione indipendentista catalana, che troverà il suo apice il prossimo 1 Ottobre con l’altrettanto dibattuto quesito referendario sull’indipendenza della Catalunya dal gobierno central di Madrid.
Innanzitutto è bene chiarire i caratteri istituzionali della questione.
La Catalunya è una comunità autonoma con un proprio Parlamento e un proprio Governo, La Generalitat. Le sue leggi si basano sullo Statuto di autonomia, il catalano è considerato lingua ufficiale al pari del castigliano e il rapporto che la Comunità ha nei confronti dello Stato non la classificano alla stregua di una nostra regione italiana, bensì come un piccolo Stato all’interno di un altro.
Contrariamente alle comunità autonome di Navarra e Paesi Baschi, però, la Catalogna manca di un sistema fiscale autonomo: il sostentamento economico dell’amministrazione regionale è regolato completamente dal bilancio del governo spagnolo, al quale afferiscono tutte le imposte raccolte nella Comunità Autonoma e che poi ne destina una parte alla Generalitat catalana (da qui gran parte delle polemiche riguardanti lo sfruttamento di Madrid nei confronti della più ricca ed economicamente dinamica Comunità, la quale da sola contribuisce a più del 20% del PIL nazionale e il cui contributo alle entrate dello stato è superiore ai trasferimenti ricevuti, con una differenza che oscilla tra il 6,4 e l’8,7% del PIL regionale).
Al momento è governata dalla coalizione perlopiù orientata a sinistra e dal carattere fortemente indipendentista “Junts pel SI” e dal suo leader Charles Puigdemont, il quale è stato eletto nel 2015 con la maggioranza assoluta dei seggi, ma non dei voti (47,9%).
Il sentimento di NON identificazione con la Spagna ha radici lontane (XI sec d.C.) e da sempre le sue tradizioni sono oggetto di repressione da parte del governo centrale di Madrid. Nei secoli questo sentimento è sopravvissuto soprattutto grazie all’interesse della classe borghese-intellettuale, ed è mutato ampiamente, passando da un carattere autonomista, incoraggiato principalmente dal principio di autodeterminazione dei popoli di Wilson (1918); fino ad acquisire, solo nel ‘900, un trend esplicitamente indipendentista.
Nel 1931 veniva ricostituita la Generalitat e la sua autonomia, dopo la soppressione di quest’ultima durante il periodo dittatoriale di Primo de Rivera.
Poi venne la guerra civile e il periodo Franchista, che nonostante le dure repressioni, non cancellò la voglia, dei catalani, di indipendenza. Tanto che nel ’78, con l’approvazione della nuova costituzione repubblicana venne istituito lo “status delle Autonomie”; la Catalogna ottenne subito un livello di autogoverno elevato, con competenze su istruzione, sanità, lingua e mezzi di comunicazione. Tuttavia, poiché la Costituzione non stabiliva un elenco fisso delle competenze regionali, ma proponeva piuttosto un menu di scelte possibili su cui Madrid e le autonomie potessero accordarsi, il processo di decentramento restò incompiuto e destinato a rimettersi in moto al variare delle contingenze politiche.
Gli anni ’90 hanno visto un’ulteriore espansione dell’autonomia catalana, fino ad arrivare al 2006 con l’approvazione su base referendaria del nuovo Statuto con un risultato regionale del 74% (Lo statuto è stato poi oggetto di forti critiche e del vaglio della corte costituzionale con conseguente ridimensionamento).
Al momento la situazione è in fermento: lo scorso 11 settembre, più di un milione di manifestanti hanno sfilato per la Rambla fino ad arrivare in Plaza de Catalunya per dimostrare il proprio assenso all’indizione del prossimo referendum (il quale ha invece scatenato enormi polemiche sulla sua legittimità da parte di Rajoy e della Corte Costituzionale che, in effetti, sostengono l’impossibilità costituzionale di una Comunità di indire autonomamente un referendum senza l’assenso di Madrid).
Benché i catalani che sostengono l’indipendenza siano in crescita, esiste un’ampia maggioranza che, pur insofferente ai limiti imposti da Madrid, ritiene la secessione una scelta troppo rischiosa.
E in effetti dei rischi ci sono: nonostante infatti il sentimento fortemente europeista, comune peraltro all’SNP scozzese, di tutti i partiti indipendentisti, c’è da calcolare il fatto che Barcellona si troverebbe improvvisamente fuori dall’UE, ed esclusa da tutti i trattati commerciali in cui la Spagna è coinvolta.
Senza poi considerare il più che probabile veto che verrebbe posto dal governo Rajoy e da altri paesi potenzialmente a rischio di rottura come il Belgio, nel caso si avviasse la procedura di entrata nell’UE.
Insomma, l’unica cosa sicura è il periodo di incertezza che, comunque vada, seguirà il primo ottobre
Un’altra cosa certa è la profondità delle ragioni di questo sentimento, che se da una parte servirebbero come riscatto ad una situazione frustrata e frustrante, come nuova motivazione ad una realtà sociale in crisi sotto tutti gli aspetti, dall’altro affondano le proprie radici in soprusi subiti da secoli: ciò che manca è il sentirsi voluti e accettati dal resto degli spagnoli (probabilmente reciproco) e rappresentati adeguatamente dalla città sul Manzanarre.
Questo indipendentismo non ha nulla a che vedere con le grette ed egoiste richieste dei nostri indipendentisti padani della domenica, non fosse altro che per la forte volontà di rimanere parte dell’Ue.
Un’ultima riflessione andrebbe fatta a livello globale, dove in un contesto sempre più globalizzato, nel quale ci si scontra ogni giorno con superpotenze economiche e politiche come la Cina o il sud-est Asiatico, sarebbe bene chiedersi se sia un bene incentivare la frammentazione di un’entità già debole com’è la nostra Europa.

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