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Politicalcio

di Stefano Sette e Simone Lo Giudice

 

La radiografia dell’Europa: dalla testa anglosassone ai piedi mediterranei, dalla sinistra neolatina alla destra slava. Ci troviamo di fronte all’Unione ottenuta per somma di differenze quali diverse abitudini, peculiari comportamenti e differenti idiomi. Adesso proviamo a riversare la promiscuità culturale sul verde: un Paese gioca a calcio come vive, una Nazione tifa come esiste. Proviamo a studiare due casi emblematici in terra europea. Penna rossa sulla cartina politica.
Braccio sinistro neolatino: una “x” su Barcellona e una “y” su Madrid.
Braccio destro slavo: ricalchiamo i confini della Repubblica serba dei nostri giorni.
Due manifestazioni emblematiche del POLITICAlcio, di quella osmosi fisiologica tra istituzionalità inappuntabile e componente ludica. La maglietta sulle spalle e un pallone tra i piedi: prima rispetta le regole del gioco, poi sii te stesso. Sul verde siamo tutti uguali, ma soprattutto siamo tutti veri. Animali sociali da studiare. Nel bene e nel male.

L’autonomismo catalano

Non c’è tifoso del Barça che non tenga d’occhio la vita di un madridista e viceversa. Proviamo a studiare i princìpi che regolano la biodiversità iberica per antonomasia, destiamo la pigra coscienza e issiamo i vessilli di questa forma di religiosità laica.
Per il Barcellona: la croce di San Giorgio (rossa su fondo bianco), la bandiera della Catalogna (quattro fasce rosse su fondo dorato), il colore del club (blaugrana per scelta del presidente-fondatore Joan Gamper, svizzero per nascita ma catalano per vocazione), un pallone da calcio in cuoio e l’acronimo del club (FCB stante per Futbol Club Barcelona).
Per il Real Madrid: la corona reale (simbolo dell’investitura regale concessa dal Re Alfonso XIII nel 1920), una banda violetta in trasversale su fondo bianco (a rappresentare la Castiglia), un intreccio decorativo per l’acronimo del club (MCF stante Madrid Club de Futbol).
Da un lato la Catalogna liberista e dall’altro la Castiglia conservatrice: per una dialettica che affonda le sue radici nel passato recente. Un’avversione fisiologica, divampata in incendio per un ritorno di fiamma: voglia di “Renaixença”, l’alba del Risorgimento Nazionale catalano nel bel mezzo del XIX secolo.
Le dinamiche politiche corrono in parallelo con le novità pallonare: nell’autunno del 1899 il progetto dello svizzero Gamper si spoglia della tenuta larvale per sbocciare in farfalla e nasce il Foot-Ball Club Barcelona.
Volano una trentina d’anni. Nel 1931 la temeraria Catalogna è diventata una regione autonoma mentre la tentennante Spagna si è dichiarata Repubblica. Le ormai trentenni FC Barcellona (1899) e Real Madrid (1902) continuano a crescere tra ideali contrastanti e ambizioni antitetiche.
Ci pensa la Guerra civile spagnola a convertire l’avversione in odio: il nazionalista Francisco Franco umilia la compagine repubblicana e fa bottino pieno al conflitto di allenamento in vista della Seconda guerra mondiale. Il Caudillo franciscano assurge al ruolo di Capitano madridista e manda in pezzi il Barcellona: dall’assassinio del presidente Josep Sunyol (membro della Sinistra Repubblicana di Catalogna) all’abolizione della bandiera catalana, fino al tentativo di abolire la lingua locale. Il club azulgrana cambiò denominazione (in Club de Futbol Barcelona) e due fasce rosse su quattro furono rimosse dal vessillo locale. Ma il sentimento catalano si palestrò ulteriormente, scoprendosi più forte delle imposizioni franchiste. La compagine di Barcellona riversò sul verde la sua voglia di riscatto: dagli Anni ‘40 più che lucenti ai ‘50 in mano al genio di Luisito Suarez (futuro interista), dagli Anni ‘60 esaltati dall’affermazione della “cantera” (cioè il vivaio locale) ai ‘70 tinti d’arancione (in panchina Rinuls Michels e in campo Johan Cruijff). All’affermazione pallonara fa compagnia la liberazione politica: nel 1975, con la morte di Franco, in Spagna torna di moda la democrazia e la Catalogna riassaggia il sapore dell’autonomia.
Ben presto l’FC Barcelona si sveste dai panni calcistici per indossare l’istituzionale giacca e cravatta: nel 1979 e nel 2005 la società blaugrana scende in campo politico per manifestare il suo appoggio agli statuti d’autonomia catalana, l’ennesima prova dell’osmosi politico-calcistica scritturata nel DNA azulgrana.
“Més que un club”: materialmente è il motto che avvolge le gradinate del Camp Nou, idealmente è l’alternativa al centralismo politico. Perché il Barcellona viene tifato come se fosse una rappresentativa nazionale che esprime l’orgoglio catalano nel panorama calcistico internazionale.
E la vittoria della truppa spagnola a Sudafrica 2010? La Catalogna ha fatto raffreddare la pietanza Mondiale prima di divorarla voracemente. Dal prologo ignorato all’epilogo festeggiato: con le bandiere spagnole ad avvolgere i balconi catalani, con i maxischermi nazionali a invadere le piazze locali.
Perché la Nazionale spagnola ha ricordato il Barcellona tanto per lo stile di gioco quanto per il numero di blaugrana in rosa. La Spagna “delbosquiana” ha schierato nella finalissima di Johannesburg ben 6 azulgrana (capitan Puyol, Piqué, Busquets, Iniesta, Xavi, Pedro) e solamente 3 madridisti (Casillas, Sergio Ramos, Xabi Alonso): l’autonoma Catalogna ha messo più di una firma sulla prima affermazione Mondiale delle Furie Rosse, in parte a discapito della reale Castiglia.
La cantera (“vivaio”) del Barcellona ha sconfessato la cartera (“portafoglio”) del Real Madrid: perchè forgiare campioni locali si rivela spesso più esaltante anziché affidarsi ad atleti esteri strappati a fior di quattrini.
Barcellonismo o Madridismo: una dialettica esistenziale, un dubbio amletico. Semplicemente El Clásico: “més que una rivalidad”.

 

Il nazionalismo serbo

Da sempre molte tifoserie calcistiche simpatizzano per determinati orientamenti politici: ciò si verifica tanto nell’Europa occidentale quanto in quella orientale. Un discorso a parte va fatto per le squadre la cui tifoseria crea problemi di ordine pubblico, sia in patria che all’estero, avendo un rapporto diretto con la classe politica.
È il caso della Stella Rossa di Belgrado (il club più prestigioso della Repubblica serba, nonché l’unico dell’Europa orientale ad aver vinto sia la Coppa dei Campioni che la Coppa Intercontinentale) che sfoggia una tifoseria legata alla destra nazionalista del Paese fin dagli Anni ‘80, quando nella ex-Jugoslavia cominciarono a crescere le tensioni interetniche tra filo nazionalisti e filo indipendentisti.
La situazione diventò critica nel 1990, pochi giorni dopo le elezioni politiche che videro la vittoria indipendentista in Croazia e il trionfo nazionalista in Serbia.
Il 13 maggio 1990 si giocò a Zagabria la gara di campionato tra la Dinamo Zagabria e la Stella Rossa, storicamente rivali sia per risultati sportivi che per fattori politici: mentre la Stella serba era schierata politicamente verso il nazionalismo, la Dinamo croata simpatizzava per l’indipendentismo del neopresidente Franjo Tu?man. Alla tifoseria serba appartenevano anche le Delije, cioè le frange estremiste guidate da Željko Ražnatovi?, futuro leader dell’esercito paramilitare serbo passato alla storia con l’appellativo di Arkan. Durante la gara i tifosi serbi strapparono cartelloni pubblicitari e inveirono contro la tifoseria locale, fino ad arrivare a vere e proprie aggressioni, armati di coltelli e muniti di sedie. La polizia, a maggioranza serba e perciò tollerante verso i tifosi ospiti, caricò rapidamente i tifosi della Dinamo Zagabria, servendosi di manganelli e di gas lacrimogeni. Questi reagirono invadendo il terreno di gioco con il fine di raggiungere gli ultrà serbi. La situazione precipitò e la polizia ordinò l’intervento dei reparti antisommossa, delle autoblindate e dei cannoni ad acqua. Gli scontri, inizialmente confinati all’interno dello stadio, si estesero anche fuori, e dopo un’ora cessarono con il bilancio di una sessantina di feriti.
Questo episodio fu interpretato come un’anticipazione del conflitto jugoslavo che si sarebbe verificato tra il 1991 e il 1995, in virtù del fatto che molti membri delle Delije furono addestrati da Arkan nell’esercito paramilitare, causando migliaia di morti in Croazia e in Bosnia-Ervegovina. Al termine del conflitto molti ultrà si iscrissero al Partito di Unità Serba, fondato dallo stesso Arkan.
Dopo la guerra civile i supporters della Stella Rossa furono protagonisti di nuovi scontri, soprattutto durante i derby con il Partizan Belgrado, la cui tifoseria è filo-partigiana: tra il 1999 e il 2006 si sono verificati numerosi incidenti, provocando centinaia di feriti.
Il rapporto diretto con la classe politica è aumentato fortemente tra il 1997 e il 2000, durante il mandato triennale di Slobodan Milosevi alla presidenza della Repubblica Federale di Jugoslavia (dopo essere stato per otto anni Presidente della Serbia). Nel 1999 la NATO, contro il parere dell’ONU, iniziò a bombardare il Paese per arrestare l’operazione di pulizia etnica in Kosovo, regione serba a maggioranza albanese.
Il 15 gennaio 2000 Arkan fu ucciso nel ristorante di un albergo di Belgrado. Nonostante l’ex comandante fosse stato il presidente del club calcistico Obilic Belgrado tra il 1996 e il 1998, le Delije lo hanno sempre considerato un loro eroe.
Il nazionalismo serbo legato al calcio è tornato alla ribalta dal 2008, con la proclamazione d’indipendenza del Kosovo, territorio da sempre rivendicato dagli ultrà serbi, in quanto “culla della loro civiltà e della loro storia”. Così hanno giustificato i numerosi incidenti sia in patria che all’estero: tanto nell’agosto 2009 a Praga (in occasione di Slavia Praga-Stella Rossa, turno preliminare di Europa League, alcuni ultrà in stato di ebbrezza hanno attaccato prima i turisti e poi gli agenti di polizia) quanto nello scorso ottobre 2010 a Genova (in occasione di Italia-Serbia, match di qualificazione a Euro 2012). Nel capoluogo ligure sono andati in scena disordini sia dentro che fuori lo stadio, con gli ultrà serbi a ostentare il tipico saluto serbo con le tre dita alzate (“Sloga Srbina Spasava” parafrasabile con “Solo l’unità salva i Serbi”) e alcuni striscioni in cui veniva rivendicata l’appartenenza del Kosovo alla Serbia.
Il rapporto tra calcio e politica nella ex-Jugoslavia, correlato con il nazionalismo xenofobo, ha portato il tifo serbo a essere considerato uno dei più facinorosi d’Europa, al punto da spingere la UEFA a prendere provvedimenti disciplinari che vanno dall’immediata sconfitta a tavolino (come nel caso di Italia-Serbia) alla possibile esclusione dalla competizioni internazionali.

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