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Come sta cambiando l’era dei Big Tech

(L’illustrazione in copertina è di Michael George Haddad per Quartz)

Cosa hanno in comune il blocco degli account social di Donald Trump, la proposta di legge che ha fatto minacciare Google di ritirare i suoi servizi dall’Australia e la nuova normativa europea in materia di digital strategy? Molto più di quanto ci si potrebbe aspettare.
Il trait d’union di questi eventi recenti è lo scontro tra entità politiche e Big Tech, ovvero gli oligopolisti del mercato digitale: Microsoft, Apple, Amazon, Google e Facebook. Il 2021 sembra essere l’anno cruciale per una regolamentazione di questi rapporti. In sostanza, si andrebbe a limitare il potere dei Big, che deriva dall’enorme quantità di dati sensibili di cui essi dispongono: il solo Facebook nel 2020 contava oltre 2 miliardi di utenti, e quindi altrettanti dati sensibili. Considerando che nello stesso anno gli internet users complessivi erano 4,5 miliardi, si parla di una sfera di influenza colossale, caratteristica che accomuna tutti i Big Tech.

Da un punto di vista pragmatico, sarebbe impossibile pensare di rinunciare all’uso di questi servizi. L’anno appena trascorso ha reso particolarmente evidente che una connessione a Internet sia ormai prerogativa per non rimanere isolati, letteralmente, dal resto del mondo. Sempre più persone hanno scoperto i benefici dei servizi digitali, e il trend globale sull’approvazione della digitalizzazione è drasticamente aumentato, specialmente in Italia.
Non è un caso che nel 2020 ci siano stati incassi record proprio per chi guadagna tramite Internet, cioè gli oligopolisti del mercato digitale. L’uomo più ricco del mondo in quell’anno era Jeff Bezos, CEO di Amazon, seguito da Bill Gates, co-fondatore di Microsoft, mentre in settima posizione si trovava Mark Zuckerberg, CEO di Facebook.

Da sinistra a destra: Sundar Pichai (Google), Jeff Bezos (Amazon), Tim Cook (Apple) e Mark Zuckerberg (Facebook). Immagine via pixelleria.it

I problemi insorgono principalmente in due casi per le aziende Big Tech: quando si tenta di regolamentare i loro introiti eccezionali (si parla di fatturati a nove zeri) e per la questione della responsabilità morale che hanno nei confronti dei contenuti pubblicati sulle loro piattaforme.
Un esempio della prima fattispecie è il diverbio nato tra Google e gli editori. Dopo mesi di contrattazione, a gennaio 2021 la piattaforma ha raggiunto un accordo con l’APIG (Alleanza della stampa d’informazione generalista francese, ndr). Si tratta della prima applicazione concreta della riforma sul diritto d’autore europea: le piattaforme internet dovranno stabilire un previo accordo economico con gli editori per pubblicare gli estratti delle notizie. Il patto costituisce un precedente importante che gli altri Big, come Facebook, potrebbero seguire. Il nuovo Google News Showcase si costituisce come una selezione di articoli scelti da redazioni considerate affidabili, in opposizione alla piaga di fake news e disinformazione online.

Seppur in circostanze simili a quelle francesi, tra Google e il governo australiano è nato un aspro conflitto. Un recente disegno di legge renderebbe obbligatorio alle piattaforme internet (per cui agli oligopolisti) il pagamento per i contenuti giornalistici che diffondono. Secondo il governo infatti, le entrate pubblicitarie ottenute grazie alle visualizzazioni di pagine giornalistiche dovrebbero essere spartite tra la piattaforma e i creatori di contenuti. Il categorico rifiuto di Google è stato accompagnato dalla minaccia di bloccare i suoi servizi nel Paese; reazione alquanto insolita, considerando che arrivava quasi in concomitanza con l’accordo stipulato con l’APIG. Come pretesto ideologico per questo doppio standard, Google ha dichiarato che sarebbe la piattaforma stessa a dover essere pagata, in quanto fornisce visibilità ai contenuti degli editori.
La differenza sostanziale, comunque, può essere ravvisata nella natura economica delle due controversie: in Francia, Google accorderà i pagamenti agli editori caso per caso, basandosi su statistiche di visibilità dei contenuti, frequenza con cui vengono pubblicati e contributo che danno all’informazione politica e generalista. In Australia, invece, non sono previste trattative ad hoc ma un arbitrato che risulterebbe sconveniente per i Big Tech, tanto che anche Facebook ha minacciato di oscurare i link alle testate online australiane.

Illustrazione Lazaro Gamio per Axios

Insomma, a causa dei conflitti di natura economica spesso vengono intaccati i diritti dei cittadini all’informazione e alla tutela della privacy. Per questo l’Unione Europea ha deciso di adottare due nuovi strumenti legislativi per stabilire linee guida che garantiscano la trasparenza delle piattaforme verso gli utenti: il Digital Service Act prevede che i social vengano considerati alla stregua di editori, rendendoli responsabili dei contenuti in essi pubblicati; il Digital Market Act, invece, regolerebbe ulteriormente i rapporti tra piattaforme e imprese, con multe fino al 6% del fatturato annuo in caso di illeciti.
Questa direzione drastica presa dall’Unione è avvenuta dopo la vicenda dei profili social sospesi di Donald Trump. A causa dei fatti del 6 gennaio, l’account Twitter dell’ex presidente USA è stato sospeso per un tempo indefinito, decisione seguita da un effetto domino per tutti suoi profili social: Facebook, Instagram, Spotify e Pinterest. Addirittura, la piattaforma Parler, usata dall’ultra-destra pro Trump, è stata esclusa nel suo formato app dagli store Apple e Google, e sono stati revocati i server che Amazon le prestava, rendendola offline. Di fatto, i Big Tech hanno messo a tacere un presidente uscente, pur nella straordinarietà della situazione.

Dunque, tralasciando il dibattito sui confini della libertà di opinione, non resta che constatare quanto sia necessaria una regolamentazione organica del web e dei social. Come dichiarato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen durante il World Economic Forum, il modello di business delle piattaforme online ha un impatto che va al di là della concorrenza leale, perché riguarda la democrazia stessa. E quindi conclude: “Ecco perché dobbiamo contenere questo immenso potere delle grandi aziende digitali (…) Ciò che è illegale offline dovrebbe esserlo anche online.

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