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You won’t be safe in Joe Biden’s America: il marketing politico delle elezioni americane

Le elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America sono state – e sono tuttora – al centro del dibattito pubblico mondiale. Si dice sempre quanto il voto sia cruciale, ma nel 2020 sembra essere più vero del solito. Dagli incendi devastanti in Australia all’omicidio mirato del generale iraniano Soleimani, dalla pandemia al Black Lives Matter, l’anomala concentrazione di eventi di enorme portata storica ha inciso fortemente sulla percezione del voto. L’affluenza alle urne è stata la più alta dal 1908: ciò è dovuto a una concomitanza di fattori, tra i quali senza dubbio rientrano le peculiari circostanze attuali, ma non solo.
Il coinvolgimento dell’elettorato è anche frutto di precise strategie comunicative dei candidati. Vale la pena analizzarle per comprendere quello che succede negli Stati Uniti, e quali saranno le conseguenze sul resto del mondo.

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Un manifesto affisso in Pennsylvania incita ad andare a votare dopo l’omicidio di Walter Wallace JR, a ottobre (foto via AFP).

Il cardine alla base della teoria della comunicazione politica è il fatto che votare non sia un’azione puramente razionale, ma abbia una componente emotiva. Il candidato deve pertanto avere uno stile comunicativo unico, credibile e coinvolgente, al fine di far sentire l’elettorato partecipe delle sue posizioni e, di conseguenza, convincerlo a votare per lui. Questo ha portato a una specie di “umanizzazione” del personaggio politico, che è molto meno burocrate rispetto al passato. Come sostiene il politologo Francis Fukuyama nel libro Identitàla politica sta diventando sempre più una questione identitaria. In un mondo globalizzato, dove il singolo individuo perde i riferimenti tradizionali, il bisogno di vedere riconosciuta la propria identità porta il cittadino a votare per chi percepisce come suo credibile portavoce.

Oggi il marketing politico, ovvero l’insieme di tecniche con cui il candidato adegua la propria identità al suo target elettorale, deve necessariamente sapersi destreggiare tra piattaforme diverse. Social network, newsletter, giornali online e spot televisivi richiedono uno stile ad hoc per essere usate efficacemente. I candidati sono infatti supportati da team di esperti in comunicazione, psicologia e sociologia, al fine di creare una strategia comunicativa capace di sfruttare al meglio l’enorme potenzialità dei media, tradizionali e digitali.

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Screenshot da un video promozionale di Donald Trump pubblicato sulla sua pagina Facebook a luglio.

Per dimostrare l’importanza della multimedialità nella comunicazione politica, basta guardare agli investimenti fatti nella corsa presidenziale americana 2020: quasi 11 miliardi di dollari sono stati complessivamente impiegati per campagne pubblicitarie. I candidati e i loro sostenitori hanno raccolto e investito milioni di dollari nelle digital advertising, fra cui principalmente Facebook Ads. Queste ultime nel caso di Trump erano maggiormente incentrate su fake news e riforma giudiziaria, mentre quelle di Biden sulla partecipazione al voto e la riforma sanitaria.

Oltre ai paid media, ovvero la copertura mediatica per cui il candidato deve pagare un determinato prezzo, esistono anche gli earned media, per definizione più controversi dei primi. Gli earned media consistono nell’attenzione mediatica ottenuta gratuitamente, ad esempio grazie a una dichiarazione particolare. Tuttavia, gli earned media possono essere gestiti in modi assai diversi dai candidati: un conto è cercare di far parlare di sé per merito, un altro invece è persistere nel generare polemiche intorno alla propria immagine pubblica pur di mantenere il centro della scena.

Donald Trump balla sulle note di YMCA dei Village People a un comizio. Il video ha scalato le classifiche dei trend su tutti i social network.
(foto di Ryann McEnany)

Esempio di earned media positivo è stato il video musicale Yes we can, nel quale artisti di fama internazionale trasformano in melodia le parole del discorso tenuto nel 2008 da Obama. Il testo era particolarmente evocativo, incentrato sulla solidarietà del popolo americano e sull’ideale di giustizia. Il video aveva contribuito a delineare l’identità politica di Obama, ottenendo un ampio successo e la vincita di un Emmy. Altri tipi di earned media sono quelli a cui punta Donald Trump. Nella campagna 2016 ad esempio, i suoi Tweet controversi, talvolta contenenti fake news o attacchi diretti alla Clinton, facevano sempre parlare di lui.

Come ormai sappiamo, l’identità politica di Trump è caratterizzata da posizioni estremiste, anticonformiste ed esplicitamente volte a sollevare polemiche. Il monopolio dell’attenzione pubblica è ottenuto tramite il comportamento da outsider, volutamente anti-politically correct.
Durante il suo mandato però si sono palesate le degenerazioni di questo continuo “one man show”.  Secondo gli analisti fact-checker del Washington Post, Trump avrebbe espresso oltre 16mila affermazioni false dall’inizio del suo mandato; significa una media di più di trecento rivendicazioni infondate per mese. A questo punto, si può asserire che le bugie non sono punti di debolezza dell’amministrazione Trump, ma sue parti costituenti.

Nella campagna presidenziale 2020 il presidente uscente ha continuato sulla stessa linea, dipingendosi come “one man against the world”, uno contro tutti, irriverente e sempre vittorioso (addirittura avrebbe, a suo dire, sconfitto anche il Coronavirus). Ogni aspetto che lo riguarda indica volontà di affermazione sopra gli altri, ed è realizzato allo scopo di arrivare  ad un prototipo preciso di elettore, mediamente poco informato, che guarda più al concreto che alla teoria.

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Un dipinto dell’artista filorepubblicano Jon McNaughton in cui Donald Trump, in posa da condottiero, guida i suoi alla bonifica della palude di Washington. Il dipinto si rifà al quadro di Emanuel Leutze “George Washington crossing the Delaware”.

Nella stessa campagna, ben diverso è stato il tono di Biden. Non privo di affondi verso l’amministrazione Trump, in particolare per la gestione fallimentare della pandemia, si è tenuto comunque più pacato dell’avversario. Un ruolo importante nella sua narrazione ha avuto la sua lunga carriera in politica e la sua forte motivazione personale. Biden infatti è stato per 36 anni senatore del Delaware, per poi ricoprire la carica di vice-presidenza nell’amministrazione Obama. Inoltre, dato che è un personaggio pubblico da decenni, la sua storia famigliare costellata di tragedie è ormai nota agli americani: più volte in questa campagna elettorale ha ricordato il figlio Beau, deceduto nel 2015 mentre Joe Biden era vice-presidente.

La sua identità è andata a porsi come un calco in negativo di quella di Trump: non solo per motivi ideologici, ma anche perché Biden ha saputo usare a proprio vantaggio il malcontento degli ultimi mesi. Il candidato democratico ha puntato proprio sui temi bistrattati dal presidente uscente, facendo proposte riguardanti il cambiamento climatico, il sistema assistenziale e la questione del razzismo sistemico. I suoi comizi si sono tenuti nel pieno rispetto delle regole anti-contagio, anche in forma di drive-in, all’opposto di quelli organizzati dal presidente attuale.

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Sostenitori di Joe Biden ascoltano un comizio drive-in a Dallas, Texas, alla fine di ottobre
(foto di Demetrius Freeman per il Washington Post)

Per avere un quadro generale del popolo americano occorre guardare oltre la dicotomia che si è venuta a creare tra gli stili comunicativi dei candidati alla presidenza. Come si è detto, bisogna ricordare che alla base delle strategie elettorali ci sono dei target specifici. Chi sono allora, le persone dietro al voto?
In prima istanza, l’ascesa di Trump è stato sintomo di una radicalizzazione degli americani. La sua elezione è conseguenza di tale tendenza, non causa, per quanto il presidente uscente abbia contribuito a diffondere con le sue posizioni estremiste una visione del mondo per poli opposti. Le persone votano per chi sentono più affine.

In secondo luogo, Trump ha sdoganato l’uso sistematico del falso in politica. Non che prima non esistessero controversie e bugie per convenienza, ma lui ha dato un duro colpo alla democrazia americana. Lo dimostra il fatto che l’elezione di Biden da una parte di elettorato non è stata percepita come in tempi normali, ma “illegittima”; Trump non ha – secondo la Costituzione – il potere di rimanere in carica a fine mandato, eppure con i suoi “I WON THE ELECTION” seguiti da banner anti-fakenews ha manipolato la narrazione degli eventi e, di conseguenza, una parte di opinione pubblica. Donald Trump è un prodotto perfetto del politainment, un fenomeno figlio della trasformazione in esperienza emotiva della politica moderna.

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Manifestanti pro – Trump protestano contro il risultato delle elezioni davanti alla Casa Bianca
(foto via New York Times)

Biden sembra invece rivolgersi a una platea più attenta ai contenuti in sé rispetto alla loro spettacolarizzazione. Il messaggio di inclusività che vuole dare segue le orme della presidenza Obama. Non assume toni aggressivi, ma nemmeno particolarmente persuasivi. Comunque, per gli americani la sua vittoria è stata una speranza di ripresa da tempi caotici e incerti. Joe Biden è il candidato più votato della storia del Paese.

Quest’aria di cambiamento non stravolgerà i grandi sistemi di potere. Però, da gennaio alla Casa Bianca si inserirà un uomo che forse dà più peso alle parole, e al modo in cui vengono dette, di quello precedente.
La comunicazione politica ha un forte impatto sulla società, perché vede le sue conseguenze concrete nel comportamento delle persone. In questo senso, il presidente della prima potenza mondiale, di qualunque partito sia, contribuisce con le sue parole a plasmare il mondo. Ed è meglio, quindi, che non siano parole false.

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