BirdmenCinema

INDIE #20: Kreuzweg – Le stazioni della fede

Una storia sezionata in quattordici sequenze di geometrica lucidità. L’inquadratura perfettamente immobile, implacabile – che in questo aumenta il senso di un occhio disumano. Quattordici segmenti intitolati come le quattordici stazioni della Via Crucis; e il riferimento al percorso della crocifissione è ben lungi dall’essere un mero espediente formale.  E’ una banda di luce rifratta in più piani e direzioni; basti per ora che dell’umore predominante nella salita al Golgota – di una  disperata e feroce sopportazione – questa storia è impregnata in ogni sua piega.

Maria è una ragazza di quattordici anni; la prima scena la vede seduta a un tavolo insieme ad altri ragazzi della sua età; è l’ultima lezione di catechismo prima della Cresima. In mezzo a loro siede padre Weber, che in un concitato sermone di dieci minuti li mette in guardia dalle tentazioni demoniache celate nella vita di tutti i giorni. Alla fine Maria rimane seduta mentre gli altri ragazzi escono dalla stanza. Vuole chiedere a padre Weber se si possa sacrificare la propria vita per un’altra persona: per un bambino malato, che in seguito scopriremo essere il fratellino di quattro anni che non riesce a parlare. La famiglia di Maria appartiene alla Fraternità San Paolo, modellata sulla Fraternità Sacerdotale San Pio X, comunità cattolica fondamentalista fondata dal vescovo francese Marcel Lefebvre in reazione al Concilio Vaticano II.

Di qui in poi, tutto accade senza strattoni, ad aumentare il senso di un destino inesorabile; e un’identica inesorabilità è presente, in modo costitutivo, nella parabola stessa della via Crucis.  La storia di Maria, depurata di ogni sfumatura romantica, ne esce in questo modo scarnificata, ridotta all’osso. E’ il dramma di una ragazzina strattonata tra la morale intransigente della comunità a cui appartiene e lo spiraglio di una religiosità d’altro tipo, meno asfittica e più compatibile con i ritmi della vita, che le si offre per mezzo di un compagno di scuola e della tata francese Bernadette.

Da parte nostra non si esige davvero nessuna empatia, nessuna immedesimazione. Lo capiamo innanzitutto dal carattere stilizzato e a tratti caricaturale dei personaggi: la madre fanatica e tiranna, il padre debole e sostanzialmente muto, padre Weber tronfio e inflessibile nella sua bulimia di parole, leggi, sermoni. Non la nostra immedesimazione: perché per quanto ci sforziamo di circoscrivere la decisione di Maria all’interno di coordinate note – il conflitto con la figura materna, la morale soffocante a cui è stata educata – il nostro sforzo è superato da uno sgomento che cresce con lo scorrere dei segmenti narrativi e nella scena finale del cimitero, con l’inquadratura che come per miracolo si solleva, come se riprendesse vita, si allarga a riempirci tutto lo sguardo.

Osserviamo la sua tragedia farsi sempre più irreparabile: una psiche in avarìa, che affonda nella sua propria devastazione fino al punto di non essere più salvabile. La osserviamo senza poterla del tutto capire, ma il nostro assistervi è già una forma di partecipazione e forse il regista non aspirava a nulla di più:  che tenessimo lo sguardo fermo sullo sfacelo di questa vita. Una vita maltrattata, trascurata di cui nessuno ha avuto cura. Ed è evidente come, in quest’ottica, poco importa che si tratti di fondamentalismo cattolico o di altro, è, nella sua essenza, la vicenda di un abbandono, di una croce portata in solitudine. Alla fine, nel momento in cui Maria esala l’ultimo respiro, il fratellino parla; difficile dire se quest’ultimo snodo narrativo si porti dietro lo strascico di un’ironia amara piuttosto che di una sprezzante derisione. Certo non è una concessione, non un invito a sospendere il giudizio. Il dubbio che si tratti di un miracolo è subito liquidato dal pianto asciutto e duro  della madre: che non lascia fiato alle ambiguità, tanto meno alla poesia. La Via Crucis di Maria finisce qui: nel rumore metallico di una scavatrice che versa terriccio sulla sua bara.

La resurrezione, per chi se l’aspettava, è in un’altra storia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *