Concorsi

Elefante

Di Cecilia Zappacosta – quinto classificato al Concorso Letterario “Blu” 2021

“Mio blu – dicevi –
mio blu.
Lo sono.
E anche più del cielo.
Ovunque tu sia
io ti circondo.”
-Ghiannis Ritsos, Erotica, 1981

“Sono contenta che tu sia venuto” gli dissi annuendo. Così mi accorsi che con sé aveva portato la mia angoscia. Era lì perché voleva? Per farmi piacere, per gentilezza? Per abitudine? Non mi ama, io sono sicura che lui non mi abbia mai amato e che mai lo farà. Me ne sono resa conto quando quel giorno, al caffè, non mi ha guardato nemmeno un po’, non ha ordinato per me e non mi ha accarezzato la mano sopra al tavolo, tra le tazzine. Arrivò come uno schiaffo in faccia. Gli occhi mi si inumidirono, bagnati da mille lame, e un laccio mi stringeva forte la gola, intrappolando la voce. Non dissi nulla, deglutii, mostrai un sorriso e un brivido mi attraversò la schiena. Camminando verso casa la sua immagine vestita di indifferenza balenava tra le mie lacrime. A casa tremai, stremata. Da allora questa inquietudine resta con me sopita, per rinvigorirsi in sua presenza.
“Ciao”. Disse oltrepassando l’uscio.
“Hey, vuoi un tè? Ho messo su l’acqua”. E mi rifugiai in cucina, i polsi sul piano di lavoro, lo sguardo fisso sui fornelli. Biagio mi raggiunse e poggiò piano la mano sul mio fianco. Posò le labbra sulla mia guancia e io analizzai ogni tocco della sua pelle sulla mia per giustificare la mia paura. C’era qualcosa di disarmonico nei nostri corpi? Dovevo saperlo, dovevo capirlo. Volsi lo sguardo verso il nostro riflesso sul vetro della finestra. Era tutto tranquillo. Per un secondo chiusi gli occhi, raccolsi quel bacio e dimenticai le preoccupazioni, l’amore negato, l’acqua sul fuoco. Un bacio basta? Ovviamente no. Il sollievo uscì da me al chiudersi delle sue labbra.
“Scusa se ho fatto tardi, mi perdoni? Stasera andiamo a teatro, ti va?”. Il mio cuore rallentò. Cercai di leggere nel suo sguardo qualcosa che lo tradisse, un bagliore in cui si palesasse quel distacco. Se menti, come lo sai fare bene.
“Certo” e uscimmo. In strada mi accertai che mi tenesse più stretta mentre attraversavamo, nel foyer se mi reggesse la porta; in platea sbirciai continuamente che l’opera che avevo scelto io lo stesse appassionando.
Gli spettatori intorno a me vedevano quello che vedevo io? C’era un elefante nella sala. Nel giro di un anno chi sarei diventata? Il signore accanto a noi che piangeva o la ragazza che sorrideva stringendo le palpebre? Posso poggiare la testa sulla tua spalla o per te è troppo? Ci provai e lui distrattamente mi abbracciò. Soave conforto. Ma io volevo venirci qui? Cosa sto guardando? Sto pure scomoda.
Tornammo, era tardi. “Dormi da me?”
“Non posso, sai che…” il resto non lo ascoltai. Continuò: “Domani? Cosa fai?”. Ti interessa?
Ci separammo. Piansi davanti allo specchio e non gli scrissi per rassicurarmi che fosse a casa. E tu, mi perdoni?

Al liceo scrissi un saggio sulla pressione in cui vivevamo noi giovani citando Pasolini e Bauman. La professoressa decise di mandare il mio scritto a un giornale nazionale, che lo pubblicò. Questo episodio eccezionale lo ricordava Emilia, che frequentava la mia stessa classe e a distanza di vent’anni lo raccontava al matrimonio di un amico comune. Mentre parlava osservavo le persone che mi circondavano. Molto poco però poteva colpirmi o distrarmi dal mio imbarazzo. I miei compagni di classe erano diventati trasparenti, cristallini, a modo. Erano scivolati perfettamente nel guscio del ruolo preposto loro. Dove avevamo nascosto tutta quella morigeratezza negli anni? Gli abiti eleganti e i colletti inamidati erano nei nostri sacchi a pelo? Arrivò come una mano tesa a un naufrago quella di Andrea che mi disse “Hey! Fumi ancora, no? Mi presti l’accendino? Sai il mio…” non terminò la frase perché era già riuscito a portarmi nel nostro porto sicuro: la veranda.
“Ti diverti come sempre”.
“Già”. Sospirai.
“Per caso avresti davvero quell’accendino?”
“Andre, lo sai che non fumo dai tempi di Gilgamesh…” dissi, sfilandone uno dalla tasca dei pantaloni.
“Quando ci sei tu però ne porto sempre uno”. La sigaretta iniziò a bruciare in un suo sorriso.
“Grazie, amica cara. Sai, l’ultimo l’ho dimenticato da Desirèe”.
“Desirèe? Ma non era Clara?”
“Da quanto non ci vediamo? Si è aggiunta nel frattempo.” Ogni volta una luce nei suoi occhi mi chiedeva scusa. Io mi accigliai scuotendo la testa. Crescere con attorno persone più grandi, ma prive di morale, comporta due rischi: l’emulazione (con la relativa sensazione di inadeguatezza, quando gli stessi ideali non calzano su di te allo stesso modo) e l’eventualità di ritenersi migliore di loro (e sentire immediatamente dopo, come un pugno nello stomaco, il rimorso). Il primo si supera crescendo, con il secondo ci lotti tutta la vita. La sua infedeltà mi scosse come se fosse una novità; ogni volta mi si stringeva il cuore per lui. Per lui? Per il suo futuro? O forse solo per me? Avevo passato una vita accanto a un adultero, volendogli bene, stimandolo.
Per amare bisogna comprendere; la mia mente, stanca di scoprire ed esplorare nuovi mondi, abituata a misurarsi con quella di Andrea, era ormai condannata a consolarsi solo con turisti dell’amore come lui. Il
mio più profondo problema con la sua amoralità era dunque questo: a qualche chilometro da me, con Biagio c’era un’amica a cui raccontava delle sue amanti? O magari c’è una di loro?
Io e Andrea ci salutammo sui gradini di casa mia senza accennare alla prossima volta in cui ci saremmo incontrati. Solo, a un certo punto, gli dissi che mi dispiaceva che non ci scambiassimo più i libri come qualche anno prima. Lui sfilò dalla tasca interna del giubbotto una raccolta di poesie greche e me lo porse, dicendomi che ciò che lì aveva letto a lui mancava, ma io l’avevo. Aggiunse che non avrei dovuto darmi tanta pena per delle sensazioni che dentro me sarebbero marcite, deteriorando gli altri pensieri. Fece un cenno dolceamaro. “Non sparire fino al prossimo matrimonio, amica. Ciao”.

Le poesie di Ritsos le avevo presenti. Biagio mi regalò quella stessa raccolta qualche anno prima. Tra le pagine aveva nascosto dei biglietti per la Grecia. Passammo due settimane tra i fichi d’india e le stelle. Ripresi il libro tra le mani, ne accarezzai il dorso e sfogliai le pagine. Chiudendo gli occhi riuscii a tornare alla dolcezza di quando mi sussurrava all’orecchio, leggendo: “Anche più del cielo. Ovunque tu sia io ti circondo”.
Lui aveva aspettato a casa mia. Ora era sul divano e aveva gli occhi, sereno, su Cyrano de Bergerac di Rostand. Mi posai lì vicino e ripresi in mano i miei amati versi. Lui, recitando i dialoghi della commedia con un filo di voce, mi accarezzò il dorso della mano sinistra. Tutti i mari del mondo mi si abbatterono sul cuore e lui mi ci trascinava dentro. Mi voleva affogare. Quel tocco penetrò nella mia pelle e risvegliò l’inquietudine.
Afferrai tra le migliaia alcuni dei pensieri che vorticosamente occupavano la mia anima; l’amore è una strada che percorriamo da soli. La mia è buia. Lo è davvero? È giusto che lo sia? Pensai ad una vacanza al mare, alle poesie di Ritsos, i quadri di Ron Hicks e le canzoni di Enzo Carella. No, il mio non era un amore vuoto, vissuto da sola. Tutta quella pena da cosa era scaturita allora? Dovevo uscire da quell’inerzia straziante. Lì accanto a Biagio, con il libro aperto in grembo capii: agire è riposare. Lessi ad alta voce: “Vicino a te ho paura – ma pure amo il mio timore. Parliamo?”

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