Concorsi

Blu come genere

Di Vittoria Poggi e Maya Artusi Moro – sesto classificato al Concorso Letterario “Blu” 2021

“Mancano cento giorni all’uscita del suo nuovo romanzo. È agitato?”
Il piatto viene spedito sul tavolo e sgomma, già mi vedo l’enorme ciambella laccata di rosa sobbalzare, fare una capriola oltre il bordo e incollarsi col suo smalto alla parete dei trofei del baseball. L’arcobaleno di praline appiccicose mi sembra una scatola di gingilli per braccialetti, di quelle che si vedono nelle pubblicità, e forse è per questo che, al posto dell’atteso profumino di pasticceria, ne sale una zaffata di plastica fusa, pronta a macchiare le dita di chi se la porta alla bocca. Per gli altri due un banale caffè, così da fingersi adulti e funzionanti.
“Mi guardi, sono tutto un fremito. Quanto tempo crede di rubarmi? Non voglio che la mia reputazione in America dipenda dalle cinquanta sfumature di viola delle mie occhiaie. A Torino sarebbero le tre del mattino, sa, il mio unico pensiero adesso è ficcarmi sotto le lenzuola.”
Ghigno, spingendo uno zuccherino contro il palato. Guarda come le sforna.
“Mettiamola così, prima risponde alle mie domande, prima può cavarsela. Ha vinto un Pulitzer con un romanzo sul suo pellegrinaggio in Tibet, fin dove si è spinto questa volta per farsi venire qualche idea, La Mecca?”
“Non importa la meta ma il cammino. Tra cento giorni me lo dirà lei, magari, di cosa parla.”
Non mi era giunta voce che il quarto Canone del buddismo fosse il sarcasmo. Probabilmente lui l’aveva scritto nell’aria con la cenere della sigaretta, in uno dei suoi “ritiri”. Non che i monaci abbiano mai nutrito molte speranze su di noi: il primo giorno abbiamo infranto il voto del silenzio con una grossa risata, quando il Dalai Lama mandò in fumo la sua millenaria dieta vegetariana inghiottendo uno scarafaggio finito nella zuppa. Al nostro arrivo avevano avuto la brillante idea di scalzarci dalle nostre scarpe fumanti, convinti che tutto il loro incenso sarebbe bastato a coprire l’olezzo di un intero giorno di camminata. Il mio cellulare era stato messo in una cassetta; già lo immaginavo due metri sottoterra, morto e sepolto.
Ma in fondo non era poi così male. I giardini, indomiti e incolti, avevano come perimetro solo un disco di nuvole. Anziché fiori e bacche di Goji, i rami degli alberi erano appesantiti da grappoli di corvi ed io mi limitavo a camminare sulle grosse radici, tutte collegate ad un immenso impianto nodoso come cavi elettrici alla centralina. Ficus religiosa, sotto le cui fronde Buddha raggiunse l’illuminazione come la migliore delle lampadine.
“Mi sembra di capire che lei abbia qualche difficoltà con le domande aperte. Proviamo con un vero o falso: gira voce che Montagna dell’anima sia stato scritturato per un film con Spielberg. Sarebbe un colpo grosso, se fosse vero.”
La nostra Inquisitrice lo squadra coi suoi occhi di falco, da sopra il taccuino in sughero; tanto le trema impaziente il ginocchio contro il tavolo che lo zucchero nelle tazze si mescola da solo. Chissà se ogni ragazza, pure con un dottorato, deve sgomitare così tanto per farsi prendere sul serio. Anche Sasha Spielberg ha dovuto sudare per pubblicare il suo album, con scarsi risultati, aggiungerei. Ma forse per lei è un discorso diverso: nessuno si aspetta che faccia meglio di suo padre.
“Se anche fosse vero, non lo verrei a spifferare ad una giornalista da tabloid. Ma neanche al Times.”
“Non è uno che dà tante soddisfazioni, lei, eh? Proviamo con un botta e risposta: Paulo Coelho o Richard Bach?”
“Una via di mezzo tra Confucio e Woody Allen.”
“È uno dei pochi scrittori che scrive ancora tutto rigorosamente a mano. Quando pensa di convertirsi al digitale?”
“Mai. Solo vedere il mio povero scriba sottopagato trascrivere a computer le mie bozze mi dà l’emicrania.”
“L’ultimo suo libro sfiorava le cinquecento pagine, non si sente almeno un po’ responsabile dell’abbattimento di tutti quegli alberi?”
Ricordo che una sera eravamo andati al bowling, solo io e lui. Le scarpette rosso ketchup facevano a pugni con la moquette psichedelica e, lucidate inavvertitamente con uno schizzo di Sprite, davano il meglio di sé nel riflettere le luci stroboscopiche della sala. Per noi era un vizio irrinunciabile quello di ricompensarsi ad ogni piccolo successo: lavare la macchina significava andare a Disneyland nel weekend, rispondere a tutte le e-mail della casa editrice era il lasciapassare per un buon bicchiere di brandy, e allo stesso modo due strike a fila ci spedivano dritti sul podio, con in mano un’immensa coppa di pop-corn.
Insomma, imbottiti di cibo spazzatura eravamo stati gli ultimi a lasciare la pista. Era chiaro che il temporale quella notte dovesse accanirsi solo e soltanto sulla nostra macchina; ogni scarica d’acqua sul parabrezza sembrava sferrata da una sparachiodi. Lui guidava con la testa fuori dal finestrino, cercando di intravedere i confini dello sterrato. Ed io, nonostante i dieci minuti spesi alla ricerca di una frequenza radio non disturbata, vedendolo rientrare fradicio e con lo sguardo allucinato, scelsi di risparmiargli almeno la colonna sonora.
Nel giro di un attimo e senza alcuna pietà, un fulmine colpì un albero al lato della strada. Riuscimmo ad inchiodare prima che il tronco in fiamme ci prendesse in pieno, slittando fino ad avere una ruota nella fanghiglia di un campo ed una sull’asfalto, miracolosamente illesi. Ci hai salvato proprio da un albero abbattuto, quella sera. Stai pensando anche tu a quella volta?
“Beh? Nessuno dei suoi commenti sarcastici?”
No, al loro posto solo un sospiro. Inizio a credere che visetto-di-volpe, dal rapido sorrisino che le scappa, si stia segnando i punti su quel taccuino, non le domande. Certo che sarebbe proprio in gamba se riuscisse a far emergere tutto questo humour sotterraneo in ciò che scriverà.
“Okay, l’accusa ritira la domanda. Torniamo a parlare del motivo per cui siamo qui: questa sua ultima misteriosissima creazione a quale genere appartiene? Questo ce lo può rivelare?”
“Non amo etichettare i miei romanzi. Sono convinto che ogni libro sia un genere a sé stante.”
“Guardi che non lo deve fare per me, ma per i suoi lettori. Almeno quando uscirà in libreria sapranno in quale sezione cercare. È un giallo, un romanzo rosa?”
“È un blu.”
“Ha ripreso a fare lo spiritoso?”
“No, sono serissimo, anzi: lo scriva nero su bianco.”
“E in che cosa consisterebbe questo genere blu? Per associazione dovrebbe trattarsi di un romanzetto facile per maschietti, da leggersi sulle panchine dello spogliatoio tutti belli ammassati e sudati.”
“In un certo senso parla di un uomo alle prese con le proprie emozioni.”
“Che originalità, sarà contenta sua moglie. Come se già la maggior parte delle voci in letteratura non fossero maschili. Le confesso che in realtà avevo capito subito che tipo di persona è lei, la sua misantropia è molto più mirata di quanto le piaccia credere. Scommetto che con un collega uomo sarebbe stato molto più disponibile, ci metterei la mano sul fuoco. Ma finiamola qui, non ho più tempo da perdere con lei.”
“Se non vuole più rivolgere parola a me, perché non chiede a mia figlia? Lei lo ha letto il libro. Le saprà sicuramente dire perché appartiene a quel genere.”
In qualche modo mi ritrovo sempre ad essere la spalla comica di mio padre. Ora che gli occhi di tutti sono fissi su di me, smetto di far girare la ciambella attorno al mio dito. Concedo a quei due pivelli un lungo sospiro paziente.
“Il mio nome è Blu.”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *