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Recensione – C’è da giurare che siamo veri…

C’è da giurare che siamo veri… Così recita il titolo della raccolta poetica di Vincenzo Calò (Albatros, 2011). E forse il poeta ci riesce.
Calò ha al proprio attivo una carriera letteraria abbastanza variegata, tra pubblicazioni in antologie, riconoscimenti in concorsi e giornalismo (scrive per il periodico romano L’Attualità, trattando tematiche etico/sociali, e per diverse riviste indipendenti). Con Antonio Di Lena cura la web/fanzine musicale Suoni del Silenzio (http://suonidelsilenzio.blogspot.it ).
«Essere veri – per Calò è – fare rima con modernità, servire a dare il sapore a quello che si è perso stando al centro dell’attenzione in modo banale» (p. 24). L’autore sceglie pertanto termini del linguaggio comune, che richiamano realtà quotidiane: «lo smalto fresco sulle unghie«» (p. 25), le «serate in discoteca» (p. 34); cose apparentemente semplici come un «portafoglio, sul comò» (p. 35), che assomiglia inquietantemente a un «corpo supino», su cui è stesa «una storia d’amore in difficoltà» (p. 34). La versificazione piana e libera è paragonata da Flavia Weisghizzi, nella prefazione, a quella dei poeti beat (p. 5).

Tuttavia concretezza e quotidianità non significano semplicità. Calò lega una poesia prosastica a introduzioni in prosa poetica, in cui la complessità è data dal modo ignoto in cui sono legati fra loro elementi noti. I «risultati apparenti/Dei personaggi del gossip» sono «Uova covate in esclusiva/per un pezzo di luce» (p. 55). Esiste un mondo fatto «Di sorrisi da ricaricare/Tra i materiali naturali/Estraendo una stella dal cielo» (p. 39). È quel mondo che ha bisogno di «investigare sulla crisi» per «dare forma ad una credibilità accattivante» (p. 39). Calò è cantore del contemporaneo e, come tale, dipinge la stralunata poesia del web e della televisione. Dietro le quinte degli schermi, si tesse «una truffa/Buona come il pane/Cattiva come un pene» (p. 38). Per questo è urgente essere veri, non foss’altro che per «ambientare la scomparsa di un termine, ‘persona’» (p. 37). La poesia – considerata l’attività eterea per eccellenza – diviene paradossalmente un modo per riaggrapparsi alla concretezza, al mondo reale contrapposto al mondo virtuale degli schermi. È anche un modo per accettarsi in quanto esseri umani e per accostarsi agli altri con filantropia, nel senso pieno ed etimologico del termine. «Il percorso è difficile, ognuno deve fare la sua parte, ma senza eccedere, perché molti non trovano più la chiave dell’umanità e proseguono a passaggi. Il nostro sport preferito è farci del male da soli. Individuando negli altri i propri limiti, la speranza di essere presenti e forti rialza le nostre fragilità…» (p. 54). Ma creare un legame in cui le debolezze reciproche siano accettate e superate non è impossibile, se Calò ha dedicato la raccolta a chi si fida di lui (p. 11). Essa si conclude con una punta di sincerità, coerente col titolo: «Ringrazio… me».

Vincenzo Calò, C’è da giurare che siamo veri…
(“Le Cose – NuoveVoci”), Roma, 2011, Albatros

@EricaGazzoldi

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