Concorsi

Il paese che poggiava sulla sabbia

Racconto di Irene Lonigro – 1° classificato al Concorso Letterario “Sogno, superstizione, magia” 2022.

Dicono che l’uomo abbia imparato a contare usando il proprio corpo. E che abbia interiorizzato quest’arte a tal punto da costruire opere miracolose di matematica e di scienza. Se è vero quello che dicono, dovete considerare però che la distesa di cui parliamo era molto grande. Troppo vasta e inestimabile da calcolare.
Quanta sabbia ci fosse non è dato dirlo, perché nessuno l’aveva mai contata fino in fondo. Di questo non si parla mai. Mai si parla di quel paese che sorge là dove l’uomo ha fallito. Tutti avevano provato, senza raggiungere la cifra esatta. La scaramanzia o la superbia li ammoniva a ostinarsi nel folle lavoro. Solo se fossero riusciti a contare tutti i granelli, avrebbero potuto dominare, almeno con la mente, quella terra selvaggia. Qualcuno ci era arrivato molto vicino, ma proprio verso la fine gli ultimi granelli erano stati portati via da un improvviso sbuffo di vento. Benché la natura provasse in tutti i modi a sabotare l’impresa, la bestia più temibile che gli abitanti dovevano affrontare era la loro memoria. Ciascuna famiglia aveva così escogitato nei secoli tecniche proprie, che i figli avevano imparato dai padri e i padri dai padri.

Josè sceglieva per prima cosa una giornata senza vento. Lo capiva la notte se il mattino non c’era vento perché sentiva venire da fuori un suono preciso. Era come un crepitio di carta bruciata, sempre più lento. Come se il fuoco, invece di disfare la carta, di accartocciarla, la aprisse come si apre il pugno di una mano. Riconosceva quel rumore familiare, apriva gli occhi e ancora addormentato guardava fuori. Allora la vista gli confermava quello che già sapeva. Il vento stava calando e i granelli si posavano graziosi a terra come fiocchi di neve. Dopo qualche ora, verso l’alba, tutto si sarebbe fermato. Quindi Josè tornava a dormire. A godersi ancora un po’ il caldo delle coperte, quel profumo di pelle sudata che aveva sua moglie sul finire della notte e che gli faceva dire che dopo poco sarebbe arrivato il giorno. In questo paese il giorno non nasceva né a Oriente né a Occidente, ma nasceva dalla sabbia. Nasceva dal basso, polveroso, simile alla terra quando è calciata da zoccoli pesanti.
Josè si alzava, si impastava il viso di acqua e farina per proteggersi dal sole e si metteva al lavoro. Accucciato con le ginocchia dentro la sabbia, ascoltava che tutto fosse immobile. Poi apriva finalmente gli occhi, che finora aveva lasciato riposare e fissava tutta la distesa. Teneva due minuscoli specchi, ognuno al bordo di ciascun occhio, come gli aveva insegnato suo padre, per avere una visuale completa. Stava così, senza muovere le palpebre, per un tempo interminabile, contando.
Alla fine di ogni giorno, prima che si levasse il vento notturno, tornava a casa. La moglie gli tamponava gli occhi con cotone imbevuto di latte. “Perché ti fai del male?” gli chiedeva ogni notte la moglie, “lo vedi quanta sofferenza ti costa”. Ma Josè non rispondeva, si faceva medicare come una bestia mansueta e accoglieva calmo le lacrime scure e pesanti.
Per tutto il lungo periodo di lavoro, Josè non abbandonava mai quell’immagine, neanche quando andava a dormire. A l mattino la riprendeva, ma per lui non c’erano interruzioni. La sua vita era, per tutto il periodo del conteggio, un unico fotogramma, senza salti. Qualunque distrazione era pericolosa. Avrebbe rovinato l’immagine che conteneva i granelli finora numerati. Ma una notte Adelita era così tiepida e morbida e lo accarezzava così bene, che Josè provò a rischiare e si inoltrò nel corpo di lei, ad occhi chiusi. Nell’atto d’amore l’immagine sfumava, si aprivano squarci, e dalla sabbia affioravano i seni olivastri di lei, e i suoi occhi viola. Gli squarci crescevano man mano che l’amore cresceva. E all’apice, l’immagine della distesa si ruppe come un telo spezzato e tutta la sabbia gli colò giù dagli occhi. Ma Josè non se ne accorse, perché era assorto nel respiro di lei.

Cèsar aveva messo a punto una tecnica più fisica e forse più efficace. Il suo metodo consisteva nel dividere la sabbia già contata da quella non ancora numerata. La sabbia già contata, attraverso una catena umana che consisteva nella moglie Alegria, nel figlio Julio, nel padre Diego, nel fratello Eduardo
e nella cognata Alejandra andava a finire dritta in casa. Ogni giorno le donne cucivano un centinaio di sacchi per contenerla tutta. Ma con gli anni la sabbia contata era diventata troppa. Allora Cèsar decise di mettere quella in eccesso nelle fessure tra un sacco e l’altro. Comandò di stiparla anche sotto i letti e nelle mensole se necessario. La famiglia, invecchiando, si muoveva sempre più lenta, perché la sabbia aveva preso a incrostare le loro membra. L’unico giovane e in salute era Julio, che lavorava da solo per tutti. Ma crescendo maturava in lui il desiderio di vedere altre cose del mondo, oltre i quintali di sabbia che gli affollavano le mani. Un giorno, mentre lavorava, vide la fronte del padre ombreggiarsi. Guardò più in alto: il cielo era coperto da una nuvola enorme che oscurava il sole. Julio, così giovane, aveva già visto le nuvole. Di solito non stavano più di qualche istante. Ma quel giorno più la guardava più gli sembrava che volesse davvero fare parte del paesaggio. La fronte del padre era sempre più scura e Julio ebbe il dubbio che non fosse un’ombra, ma una macchia permanente. A macchiarsi ora non era più solo il padre, ma anche la distesa di sabbia, le case, i volti. E tutti sembravano non accorgersi di quel buio che li avvolgeva.
“Padre” e fece per toccargli la fronte, “ma sei sudato”. Si guardò la mano ed era come bagnata di inchiostro. “Tranquillo Julio, è soltanto pioggia” gli sorrise il padre “continua a lavorare”. Julio non aveva mai conosciuto la pioggia e voleva vedere come scende dal cielo. Disubbidì al padre, e fu l’unica volta, e corse fuori a guardare la pioggia del colore dell’inchiostro.

Jacinto se ne andava dal villaggio per lunghi periodi e nessuno lo cercava. Quella volta, però, Jacinto si era alzato felice e ispirato, non si sa se ispirato perché felice o felice perché ispirato. Sentiva nell’aria una vaga brezza che gli ricordava la sua infanzia. Jacinto era nato con l’orecchio assoluto, ma non aveva mai sfruttato questa dote, perché non sapeva suonare nessuno strumento. E comunque, anche se fosse stato, era impossibile suonare in un paese immerso nella sabbia. Questo Jacinto se lo ripeteva ogni volta per consolarsi. Però gli piaceva ascoltare la sabbia che, secondo lui, aveva un suono e stava ore disteso con l’orecchio teso al vento come ascoltasse un disco molto lungo.
Quel giorno, quindi, si mise in cammino più presto del solito e superò il villaggio. Quando ebbe raggiunto un bel punto decise questa volta di sdraiarsi sotto la sabbia, per sentire meglio. Così creò una buca piuttosto ampia, si spogliò, ci si mise dentro e si coprì con un bello strato di sabbia, perché a quell’ora del mattino faceva ancora freddo. Si accoccolò e, lì rannicchiato, si mise ad ascoltare il suono potente della sabbia che sembrava quello che si sente nei fondali marini. Pian piano il suo fiato caldo lo scaldava. Stava veramente bene, tanto che non si sarebbe più mosso. Scivolò nel sonno e nel sogno la sabbia gli parlava, gli si accostava all’orecchio e Jacinto, senza saper contare, capì. Capì finalmente quanto era grande quella distesa.
Quando tornò al paese, quel giorno, non era arrabbiato, sorrideva.
“Oggi sei contento, Jacinto, sì?” gli dicevano.
“Sì, perché ho capito”.
“Cosa hai capito, povero matto?”
Tutti lo guardavano, nudo e impolverato davanti a loro, chi con misericordia, chi con sospetto.
“Ha trovato il numero!” gridavano alcuni incantati, Julio in testa: “Fatelo parlare!”.
“Ti ascoltiamo” decise infine Josè, la cui opinione era tenuta in grande considerazione.
Ma Jacinto non seppe rispondere. Non gli avevano mai insegnato i numeri. Eppure era l’unico che aveva contato fino alla fine.

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