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Di Alessandro Tacchino – Quinto classificato al concorso letterario Di-Stanze 2020

Questa bicicletta gliel’aveva regalata suo padre l’anno scorso. Era la sua prima bicicletta. Il padre gli aveva detto di starci attento: stacci attento, figliolo, così. E lui aveva risposto che ci sarebbe stato attento eccome, a quella bicicletta. Se la tirava dietro con una mano, e con l’altra teneva il gelato. Faceva caldo e il pistacchio e la nocciola gli erano colati sulle dita. Cate non ci faceva caso, ma aveva una buona tecnica per non fare la stessa fine. Lei non aveva una bicicletta. Per questo camminavano l’una vicina all’altro, e lui si tirava dietro la sua.
Qualcuno gli sfrecciò accanto, proprio nello spazio che c’era tra lui e Cate. Gli diede un colpo sul gomito che per poco non gli cadeva il gelato per terra. Ehi, aveva esclamato. L’altro si girò e alzò una mano, ma non si fermò. Il parco era affollato.
Perché non ci fermiamo qui, chiese Cate.
A lui sembrò un buon posto. Tra gli alberi c’era questo monumento e ci avevano posato una corona di fiori grossa quanto la ruota di un camion. Lì intorno non c’era nessuno. Lui mollò la bici sull’erba. Era fatto così, il monumento: c’era una stele grigia e lucida dov’erano scritti dei nomi; sopra quella lista c’era un tondo e, dentro, in rilievo, il profilo di un volto – un infermiere, con mascherina e tutto. Questa stele stava diritta su una base di marmo fatta a gradoni, e lì si sedettero lui e Cate.
Erano tutti impegnati col loro gelato, ma Cate era arrivata al cono e così si fermò a riprendere fiato. Ora non le avrebbe più potuto appiccicare le dita. Si voltò a guardare la corona di fiori sulla stele.
Sai che questa è l’unica festa che si fa in tutto il mondo, disse.
Anche lui si voltò. Sapeva che era una festa importante, perché era rimasto a casa da scuola.
E Natale, allora?
Stai scherzando.
Anche lui finì il gelato e si mise a mordicchiare il cono.
Il bisnonno di Marco Botti è uno dei dottori che è morto, per questa storia. Vedi, c’è scritto il suo nome là in alto.
Lei seguì il suo dito e lesse il nome che le indicava. Era vero.
Secondo te davvero all’inizio nessuno ci credeva e pensavano che era una bugia?
Be’, il nonno mi dice che tanta gente è morta per quello, rispose lui. Martedì era lì con noi a mangiare, perché c’era festa, e ci ha raccontato delle cose. Praticamente, c’era gente che pensava che fosse influenza. Così non si preoccupavano troppo e l’hanno sparsa in giro.
Non usavano le mascherine, lo so.
Poi, il vaccino non esisteva mica.
Lo so, cosa credi. Mia nonna l’ha pure preso, il virus. Dice che era come annegare, a volte. Dice che i dottori sono stati degli eroi.
Eroi di guerra, disse lui.
Mia nonna non vuole che si parli di guerra. Dice che non è stata una vera guerra, perché non c’erano dei nemici.
Lui ci pensò su. Non ci si era mai soffermato granché, e suo nonno diceva sempre che quella era stata una guerra vera e propria. Con armi e morti e nemici veri. Ora che aveva finito il cono, però, si era reso conto della condizione delle sue dita.
Hai mica – ma lei non lo lasciò finire. Prese dalla borsa il flacone e gli passò il disinfettante. Grazie, le disse. Non so come ho fatto, davvero.
Una volta, quando non si poteva uscire, mia nonna voleva tanto vedere il nonno che c’è andata a piedi. Lui ascoltava e si strofinava le mani, cercando di renderle meno appiccicose. Disse di raccontargli quella storia.
Lui abitava in un’altra regione e non potevano vedersi. Così, un bel momento, lei gli ha detto che lasciava il telefono a casa e che di lì a un paio di giorni l’avrebbe raggiunto. Ce ne ha messi quattro, di giorni, perché non conosceva la strada. Mi ha detto che aveva una cartina ma non sapeva leggerla. Si era persa nel bosco e una notte ha anche sentito dei lupi. Poi ha trovato di nuovo un sentiero. Però, sai qual era il problema? Che quando è arrivata alla pianura e c’erano tutti i campi e nessun albero, la vedevano
dall’elicottero. Così mi ha detto che l’ultimo pezzo di strada, tutto in pianura, se l’è fatto di corsa perché aveva paura.
E che mangiava, tua nonna, da sola nel bosco?
Non lo so, si sarà portata delle provviste.
Wow, disse lui. E non l’hanno mai scoperta?
No, mai. Lei è rimasta da mio nonno per un mese e mezzo, poi è potuta tornare a casa. Mio nonno dice che era arrivata tutta sporca e sudata e con i vestiti strappati e sembrava proprio una scappata di prigione.
Lui le restituì il disinfettante. Anche Cate se ne mise un po’ nelle mani.
Sono andati avanti così per un po’, a stare chiusi in casa. Poi potevano uscire, poi di nuovo chiusi in casa eccetera. Quando hanno trovato il vaccino, i miei nonni hanno fatto una festa e c’era tutto il paese. Lei
viveva in campagna, mio nonno in città. Ma era andato da lei per festeggiare. Una festa bellissima, con la musica e i panini e tutto. C’è una foto in casa di quella festa. Si vede un sacco di gente con le mascherine
sulla faccia, ma ballano tutti e si tengono per mano. Mia nonna dice sempre che era stata una cosa davvero stupida, quella festa. Però erano felici e volevano stare insieme.
Un uomo si fermò nello spiazzo insieme a loro. Aveva una tuta e le scarpe da corsa. Si sedette lì a riprendere fiato. I due lo guardarono, ma poi ricominciarono a farsi gli affari loro.
A educazione ambientale la maestra ha detto che è stato perché bruciavano le foreste, disse lui.
Cate lo guardò negli occhi. Non le sembrava una cosa vera.
Perché avrebbero dovuto bruciare le foreste, chiese.
Lui ci pensò su. Non trovava nessun motivo, però gliel’aveva detto la maestra.
Me l’ha detto la maestra. Bruciavano le foreste e i pipistrelli col virus sono usciti da lì e hanno combinato tutto il pasticcio. Non me lo sto inventando, disse lui.
Ma questa cosa non ha senso. I miei mi hanno detto che è stato perché i terroristi facevano degli esperimenti.
Cosa sono i terroristi?
Le persone più cattive del mondo. Papà dice che i terroristi esistono ancora, ma che stanno nascosti in Africa.
Perché stanno nascosti?
Lei ci pensò su. Perché sono cattivi, rispose. A chi piace la gente cattiva?
Sono americani, i terroristi?
Non so. I mei hanno detto qualcosa su u-han, ma non so cosa significhi. Forse è il nome di un terrorista, però dev’essere un cinese.
Rimasero in silenzio. Il runner aveva ripreso fiato, si alzò e fece un cenno con la mano ai due.
I cinesi sono buoni, non sono terroristi.
Te l’ho detto, non lo so. Mamma ha detto così, che è stata colpa di u-han. Però mio nonno dice che non vuole che si parli di quelle cose perché non lo sappiamo.
Capito, disse lui. Ti va se ti accompagno a casa?
Cate guardò la bici appoggiata a terra.
No, viene a prendermi mio fratello con la bici elettrica. È più comoda.
Eddai, insisté lui. Puoi sederti tu sul sellino, io sto in piedi.
Non so se ce la fai a pedalare fino a casa mia.
Ma che credi? Sono un uomo, io. Sono forte.
Cate rise e disse che andava bene. Disse che si sarebbe fatta accompagnare a casa da lui. Chiamò il fratello al telefono e lui disse che andava bene.
Sai che non ci si potevano dare i baci, quando c’era il virus, disse Cate. Era rossa sulle guance.
Be’, vorrei vedere. Che schifo, i baci.
E allora Cate pensò che, sì, era proprio un uomo.
Quando salirono sulla bicicletta, lei non si sedette. Restò in piedi dietro, mentre lui diceva che si sarebbe fatta male. Lei gli disse di stare zitto e andarono verso casa. Quando arrivarono, lei gli diede un bacio sulla guancia e divenne rossa. Lui si sfregò col dorso della mano, ma non le importò. Sua nonna le aveva detto che quando si vuole fare qualcosa bisogna farlo. Altrimenti ti scappa il momento e chissà quando
torna, aveva detto così.

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