La leggenda del palazzo di feldspato e dell’albero malato di artrite reumatoide
Di Giuseppe Paolo Grieco – Sesto classificato al concorso letterario Di-Stanze 2020
In un luogo in cui non esistevano porte, ma solo finestre e qualcuno potrebbe legittimamente domandarsi il perché di questa cosa, ma la verità è che molto spesso le cose stanno in un certo modo solo perché è così che stanno e se non stessero così non le staremmo qui a raccontare, c’era un palazzo di feldspato. Il palazzo aveva centinaia di stanze senza porte e con solo una finestra e ciascuna di queste stanze era abitata da non più di una persona. Nessuna di loro sapeva con esattezza perché fosse lì. Probabilmente ci erano nati, ma nessuno ne era certo perché nessuno se lo ricordava con esattezza.
Per raccontare la storia di queste persone dobbiamo innanzitutto tenere presente che la loro vita si svolgeva interamente alle finestre. Ogni mattina si svegliavano, si affacciavano e iniziava la giornata. Centinaia di persone a salutarsi, chiacchierare, insultarsi e anche a litigare. Un ragazzo con una chitarra, alcune sere, poi, si esibiva per tutti i condomini eseguendo alcuni pezzi indie del momento e le ragazze dei piani superiori, stregate dalla sua voce, lanciavano dalle finestre dei foulard che il giovane cantante raccoglieva e conservava a mo’ di trofeo. Una notte, un uomo dei piani superiori che non riusciva a dormire a causa del chiasso lanciò dalla finestra un ferro da stiro che colpì in testa il giovane cantante uccidendolo. Da quella notte dalla sua finestra calò il silenzio.
Se per molte ragazze quel ferro da stiro era stata una maledizione, per altri non fu così. Vivevano nel palazzo un ragazzo e una ragazza innamorati l’uno dell’altra e per loro quel ferro da stiro era stata piuttosto una benedizione perché, ora che di notte non si affacciava più nessuno, potevano affacciarsi indisturbati e dirsi tutti i “ti amo” che volevano, considerato che i piani che li separavano erano quindici e di giorno era praticamente impossibile vedersi o sentirsi con tutta la gente che si affacciava. Gli incontri proseguirono per oltre un anno fino a che il ragazzo non chiese alla ragazza di sposarlo. Passarono quindi alcune notti a lanciare sassolini contro la finestra di un parroco che, stanco di non poter dormire, dischiuse le persiane, riconobbe in loro il vero amore e li dichiarò marito e moglie. Al momento del sì l’intero palazzo si affacciò dalle finestre per elevare un grande applauso. Il parroco si era premurato infatti di invitare al matrimonio tutta la gente delle finestre vicine. La situazione gli era però sfuggita di mano e per un passaparola incontrollato ogni condomino, anche il più antipatico, si era ritrovato invitato. Ma cosa importava. Per dieci giorni tutti gli abitanti cantarono e ballarono, ciascuno nella propria stanza, facendo tremare la costruzione. Al termine della festa, il ragazzo e la ragazza, ormai marito e le moglie, non essendoci porte o scale, trascorsero la loro prima notte di nozze e molte di quelle a seguire nelle loro rispettive stanze.
Alcune notti dopo, un uomo con la consolle dei piani bassi, convinto che quel palazzo fosse un mortorio, mise del reggaeton a tutto volume portando all’esasperazione i condomini che, in risposta, tirarono giù dalle finestre il finimondo pur di far tacere l’uomo con la consolle che, tuttavia, utilizzava un impianto Dolby surround ed era praticamente impossibile capire da dove provenisse il suono che sembrava arrivare da tutte le parti. Una mattina, un cacciatore con un berretto di giada si affacciò da una finestra dei piani alti prima del classico affollamento delle 10 e, posizionatosi con un lungo fucile sul davanzale, tirò una schioppettata in direzione delle persiane di una finestra del secondo piano. Delle persone si affacciarono al rumore dello sparo e, sconvolte dalla scena, gridarono “all’assassino!”. Richiamati dalle grida si affacciarono anche alcuni poliziotti che, cogliendo il cacciatore con il cappello di giada con il fucile fumante, lo dichiararono in arresto e un giudice lo condannò all’ergastolo. Il cacciatore chiuse dunque le persiane e si ritirò a vita privata nella sua stanza fino alla fine dei suoi giorni. Bisogna dire però che il cacciatore c’aveva visto bene, perché in quella stanza del secondo piano c’era realmente l’uomo con la consolle. Nelle notti a seguire, in effetti, nessuno mise più musica a tutto volume.
Il matrimonio del marito e della moglie, nel frattempo, aveva risvegliato le coscienze dei condomini che non ricordavano di altri matrimoni mai celebrati un po’ per scarsa memoria, un po’ perché non sapevano nemmeno quanti anni avevano né quando erano nati, abituati com’erano a vivere da un vita in stanze di feldspato in cui il loro cuore si era raffreddato. Fu così che, scoperto l’amore, molta gente volle sposarsi. In pochi giorni incominciarono a volare aeroplanini di carta riportanti notifiche di matrimonio firmate dal parroco in persona e chiunque li avesse presi sarebbe diventato congiunto di chi lo aveva lanciato. Fu così che quasi tutti i condomini si sposarono senza neanche essersi prima conosciuti. Invero le nuove coppie erano ammorbate dalla curiosità di conoscersi, ma era frequente che le finestre dei due congiunti fossero talmente distanti che pure di notte la distanza era troppa per potersi parlare. Una notte, un congiunto dei piani alti tentò l’impossibile. Aveva calcolato che, essendo la congiunta alcuni piani sotto di lui, avrebbe potuto raggiungerla lanciandosi dalla finestra. Le gridò di tendere le braccia per afferralo, dopodiché si lanciò.
Il corpo dell’uomo prese rapidamente velocità e per le braccia esili della povera donna fu praticamente impossibile reggere il peso dello spasimante che andò a schiantarsi, morendo sulle lastre diamantine del pianterreno. Il capo condomino indisse lutto condominiale e per tre giorni i condomini appesero alle finestre drappi neri in segno di rispetto. Il gesto dello spasimante non venne però dimenticato. Altri spasimanti, emulandone le gesta, si lanciarono dalle finestre con la speranza di essere afferrati, schiantandosi anch’essi sulle lastre diamantine.
Il marito e la moglie, sentendosi responsabili di tutte quelle vittime, di comune accordo con il parroco lanciarono un aeroplanino di carta verso il cielo per scusarsi del loro amore con l’universo intero, sperando di porre, in questo modo, fine alla tragedia.
Alcuni giorni dopo si abbatté alle pendici del palazzo, su di un meteorite, un albero malato di artrite. Alcuni scienziati poi sostennero che non era proprio un meteorite, semmai un asteroide e che quell’artrite era reumatoide. Fu così che un gigantesco albero malato di artrite reumatoide incominciò a crescere lungo le facciate del palazzo e così come l’artrite reumatoide deforma le mani e i piedi di chi ne è colpito, anche i rami dell’albero ne erano deformati allo stesso modo, crescendo in un modo talmente imprevedibile che sarebbe stato impossibile dire a priori dove quei rami sarebbero andati a finire.
In pochi mesi tutte le finestre furono collegate per mezzo dei rami di quello che venne soprannominato affettuosamente reumalbero ed è così che la nostra storia giunge al termine perché il marito e la moglie andarono a vivere nella stessa stanza, il parroco poté dare le esequie all’uomo con la consolle, i poliziotti arrestarono il cacciatore dal cappello di giada, le ragazze scoprirono che il cantante non era morto, ma si era ritirato a scrivere la più bella canzone che fosse mai stata scritta e tutti i congiunti si congiunsero.
L’unico infelice era il reumalbero che, malato com’era, si lamentava continuamente dei dolori che i rami gli causavano. Ai lamenti dell’albero, stanco di quel dolore, rispose un giovane medico neolaureato che sapeva far piovere i farmaci dal cielo. Il medico chiese allora alle nuvole di far piovere immunosoppressori e un temporale immunosoppressivo si scatenò sul reumalbero guarendolo una volta e per sempre dall’artrite reumatoide ed è così che finisce finalmente la nostra storia.