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Da Chicago al lago delle Ozark, nel Missouri

Dalle idee di Bill Dubuque e Mark Williams nasce Ozark, la nuova serie originale Netflix, accolta finora molto bene dal pubblico e facilmente riconducibile alla più fortunata delle esperienze del sottogenere poliziesco negli ultimi tempi. Accade che, infatti, nel biglietto da visita compaia la parola magica: narcotraffico. Ozark per l’appunto narra le vicende di Martin Byrde (“consulente finanziario” del secondo cartello di droga messicano) interpretato dal famoso Jason Bateman (anche produttore e regista di alcune puntate), e della sua famiglia, alle prese con un piccolo misunderstanding cogli impulsivi datori di lavoro centro-americani.

Eppure c’è da precisare una questione: la droga compare soltanto dalla metà stagione scoccata e a dire il vero mai si presenta come materia dominante, piuttosto come pretesto. Abile penso sia, a questo punto, la strategia degli ideatori: tenendo presente una mole troppo ingente (non solo per quantità) di serie televisive sul l’essere in atto del narcotraffico (Breaking Bad in primis, ma non dimentichiamo Narcos), hanno abbandonato in partenza la possibilità di frequentare nuovamente il tema. Sarebbe significato probabilmente la costruzione di una serie piacevole, ma niente innovativa e neppure originale (con climax discendente). Il traffico di droga, perfettamente definito proprio in virtù di quei prodotti nominati, si configura come il sostrato culturale (seriale) che al contempo funge da pretesto e da griglia, dalla quale trarre a piacimento ostacoli ed elementi risolutivi per la narrazione, alla stregua della tradizione e dei modelli per la storia della letteratura.

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Il monito sarà perciò di dimenticare parzialmente (o lasciare che si ponga al servizio della visione) la tradizione televisiva sul narcotraffico per approcciare positivamente le nuove soluzioni. Questo non significa che Ozark si presenti come un’assoluta novità, anzi: per i primi cinque episodi la densità di avvenimenti è bene calibrata, senza mai toccare pericolosi estremi di assoluta e continua imprevedibilità (come in Game Of Thrones) o di rarefazione (Orange Is The New Black), ma proprio nel suo equilibrio riesce a sperimentare con moderata intensità. Purtroppo, alla sesta puntata la narrazione strapiomba, con precisione in un passato biografico. La forza di Ozark è parsa nelle costanti stilistiche: nella tonalità opaca dei colori, nella sonorità acquatica dei movimenti (e nella loro costitutiva lentezza), nel nervosismo delle pause, nella proposizione ad inizio puntata di un frammento che non anticipa ma parla della fine (già dalla prima puntata, la scena di Martin Byrde che nasconde dei narcodollari in un condotto). A proposito dell’ultima qualità, vorrei dire ancora: non si tratta di flashforward (concetto che implica l’associazione immediata con il flashback, pur essendo due figure retoriche che producono effetti antitetici: di aspettativa il primo, di approfondimento il secondo) ma di un parallelismo temporale (dirò ritmico), che pertiene più a una questione di stile che di narrazione. Intendo insomma che non crea aspettativa (per la brevità del frame), ma produce una marcatura stilistica. In controtendenza, come anticipato, il sesto episodio, un noioso retrocedere biografico che approfondisce (con quale vantaggio?) il carattere dei personaggi, nuovissimi nelle prime puntate e invecchiati dispoticamente con l’ingenuo alimentare psicologico: dietro al rapporto difficile tra il protagonista e la moglie (Laura Linney in Wendy Byrde) ci sarebbe un trauma (?) di entità macroscopica. Niente spoiler, seppur non rilevante.
Comunque, dopo l’episodio, i restanti quattro faticano a procedere, rendendo ancor più evidenti delle brevi ma intense incoerenze che avevano popolato il primo emistichio della stagione: un quasi annegamento (immotivato e patetico) parallelo a una furiosa litigata che non permette alla coppia di ricevere le richieste di aiuto; alcune scene di inaspettata violenza privata; un omicido apparente per qualità registiche e altro ancora, ma per cosa? Spero fiducioso in una svolta decisiva nella seconda stagione (che ci sarà, probabilmente).Ozark-immagine-Serie-TV-Netflix-03

Insomma, da buoni presupposti (una prima puntata decisamente sopra la media) che non hanno dato il risultato sperato. Speranza riposta, con qualche riguardo, nella seconda stagione, che a partire da un azzeramento radicale – che sfiora per forza narrativa (ma non per risonanza) quello tra la seconda e la terza di Narcos – potrebbe ritentare la strada dell’originalità e dell’innovazione. Consigliata, certo, ma con i doverosi riguardi.

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