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Tommaso Landolfi, Le più belle pagine.

Tommaso Landolfi (Pico, 9 agosto 1908 – Ronciglione, 8 luglio 1979), prosatore, saggista, traduttore (dal russo soprattutto) e poeta del Novecento italiano, fu uno dei maggiori scrittori della nostra tradizione letteraria. Attorno alla sua figura aleggia una leggenda degna del più decadente maledettismo dei grandi poeti francesi di fine diciannovesimo secolo: la sua fobia dell’immagine (venne ritratto in foto davvero poche volte. Raramente si fece intervistare e rifuggì sempre il cinema e la televisione), la sua scrittura densa e spesso oscura, la sua eterodossia, i suoi racconti spesso attingenti ad una dimensione verticale onirica e surreale, l’ossessione patologica per il gioco d’azzardo e per il topos letterario dell’incesto e dell’amore impossibile (potrei continuare) l’hanno reso incandidabile alla letteratura di mercato e parimenti alla manualistica scolastica (non è mancata una certa ostilità da parte della Chiesa cattolica per l’irriverente Le due zittelle, dialogo fra due sorelle, un prete giovane ed uno anziano attorno il reato di una scimmia domestica, accusata di aver profanato la sacrestia e l’ostia consacrata).

ec5bd74bcc7c28e4ae1b973ab397e48e_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyLa parziale disconoscenza da parte del pubblico non ne depaupera la grande forza letteraria, né diminuisce l’attenzione della critica. Il grande Calvino ha individuato in lui il maestro (l’anticipatore, il precursore che dir si voglia) del “realismo magico” (pensiamo al romanzo La pietra lunare, con protagonista Gurù, una ragazza capra), insomma di quei caratteri fantastici che troviamo nella trilogia araldica o nelle Cosmicomiche e via dicendo. Nell’antologia di racconti curata da Calvino, il famosissimo autore scrive: «[Landolfi] è un conservatore in quel modo speciale (addirittura metafisico) in cui non può non essere conservatore il giocatore cui l’immutabilità delle regole garantisce che l’azzardo non sarà abolito ad ogni colpo di dadi»[1]. Un’immutabilità spietata, devozione totale al caso, del quale mai pacificamente ne ha accettato l’esistenza: «[…] è difficile credere seriamente che un caso sia casuale, o insomma credere seriamente al caso. Pel semplice fatto che una cosa accade non può essere casuale – sembrerebbe di poter affermare con sicurezza, […]. Ma qualcuno ha inventato il caso e tutti i pensanti lo hanno accettato: anche coloro che mostrano di rifiutarlo quale ordinatore o disordinatore dell’universo lo ammettono implicitamente in ogni momento della loro giornata». Caso che è mobilità e immobilità al contempo, sofferente della condizione di mobilità ed immobilità dell’uomo, da sempre alla ricerca della felicità che, per il motivo stesso d’avere un nome, è irraggiungibile, illusoria.

Gli elementi testé evidenziati sono in contrasto e accordo anche nella dimensione allucinata di Cancroregina[2], romanzo breve (o racconto lungo) apparso per la prima volta nel 1950. Landolfi scrive una stupenda novella di fantascienza, dal carattere ancora ibrido, forse d’appendice al genere fantastico, con un piede nel dominio del surreale. Brevemente, è la narrazione d’un viaggio in direzione della luna, insieme ad un uomo (il costruttore della navicella: Cancroregina, appunto) al quale affiderebbe pure la vita, come un sacerdote alla divinità. Profeticamente, lo scrittore laziale avverte, lui narratore, la pericolosità del viaggio spaziale (pur certamente non conoscendone le implicazioni scientifiche[3]): l’infinità del cosmo investe il protagonista, trascinandolo per la camicia alla deriva. «Sospetto, rileggendo le ultime pagine, d’aver subito un lungo accesso di follia». Follia che sempre, in Landolfi, è alimentata dall’ossessione per la forma, e dalla “problematicità di rapporti e conflitti tra scelte stilistiche e disordine della realtà […]»[4]. (Grignani, Novecento plurale). Problematicità lucidamente esposta da Italo Calvino in Mondo scritto e mondo non scritto:

La mente dello scrittore è ossessionata dalle contrastanti posizioni di due correnti filosofiche. La prima dice: il mondo non esiste; esiste solo il linguaggio. La seconda dice: il linguaggio comune non ha senso; il mondo è ineffabile. Secondo la prima, lo spessore del linguaggio si erge al di sopra d’un mondo fatto d’ombre; secondo la seconda, è il mondo a sovrastare come una muta sfinge di pietra un deserto di parole come sabbia portata al vento.

Per Landolfi è ancora oltre, la criticità, oltre la dicotomia citata, e travolge pertanto anche la sfera della vocalità: «L’espressione, la voce stessa ci tradiscono, o almeno tradiscono ciò da cui si dipartono» (Rien va[5]). Sono numerosissimi i racconti sul tema, come il binomio La passeggiata (un racconto incomprensibile, eppure scritto in italiano) e Conferenza personalfilologicodrammatica con implicazioni (l’esegesi pubblica e sfacciata del racconto precedente).

2landolfi_tomInsomma il maledettismo attribuito al poeta non sembra fuori luogo, anzi: è chiara espansione di quella costante inquietudine esistenziale (e formale) dell’uomo (in niente differente dal poeta) Landolfi, il quale non crede alla parola, non crede alla relazione tra la parola e la cosa, ma neppure concepisce l’arbitrarietà del legame tra significante e significato. Sostiene il continuo tradimento della lingua nei confronti del reale, un reale che quindi è ineffabile, incomprensibile, estraneo e perciò inospitale.

La non-scuola d’avanguardia, di cui Landolfi (non) fece parte, lavora per faglie interne al codice, ne disossa la tenuta, svincolano il reale dalla sua compattezza e credibilità con effetti di raffreddamento e disgregazione. Lo scrittore innesta sugli apparati scenici di una realtà cui non presta fede una critica coraggiosa dell’arbitrarietà e inadeguatezza del mezzo linguistico («Eppure dovrò smettere presto: un libro è come una malattia»), di cui pure aveva e ha mostrato padronanza assoluta, senza mai preoccuparsi della mimesi dei registri sociali o d’uso: Carlo Bo scrisse di Landolfi come il primo scrittore italiano dopo D’Annunzio a poter fare con la penna tutto ciò che voleva. Il vero elemento in comune fra i due è che entrambi scrissero al cospetto della lingua italiana tutta intera, in diacronia.

Per ciò che concerne potenziali consigli di lettura, fra i numerosi romanzi, i racconti, i saggi, le traduzioni, i diari (fittizi), le poesie, cercare in libreria sembra tanto una facile operazione, quanto soddisfacente. Immergersi in Landolfi significa voler scoprire un modo diverso di percepire la lingua, l’io ed il reale, nonché comprendere parte della letteratura secondo novecentesca: a Firenze conobbe Gadda, Contini, Quasimodo e soprattutto Montale, il quale gli dedico una bella poesia: l’Elegia di Pico Farnese nelle Occasioni.

[1] Le più belle pagine di Tommaso Landolfi, scelte da Italo Calvino, Adelphi.

[2] Letta dall’edizione Adelphi.

[3] S’allude ad alcune ricerche sulle radiazioni di fondo dello spazio, e del complesso intero delle radiazioni: assieme alle condizioni avverse e alla solitudine, porterebbero alla pazzia.

[4] Maria Antonietta Grignani, Novecento Plurale, Liguori, 2007.

[5] Pubblicato da Vallecchi nel 1963, Rien va segue La biere du pecheur nel genere del diario, pur di finzione. Dal linguaggio “tecnico” del gioco d’azzardo, significa “non va niente”, ad indicare l’impossibilità del gioco a causa della sfortuna.

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