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Ottobre 1943: lo scontro inevitabile

Si è a lungo dibattuto della collocazione dell’Italia nel sistema internazionale durante la Seconda guerra mondiale, soprattutto in relazione al tentativo di autarchico isolamento di Mussolini.

Nella catena nazista, l’italia si mostrava più vulnerabile: le sconfitte subite ne avevano messo in luce le carenze strutturali, e geograficamente era il paese più esposto ad un’offensiva bellica degli Alleati guidata dal comandante supremo alleato, generale Eisenhower. Il dissenso aperto verso Mussolini dilagava non solo negli ambienti diplomatici ma anche nell’opinione pubblica, fino a esponenti interni al Partito Nazionale Fascista: l’Italia era un’incognita politica e militare, il paese era in fermento, tra chi ambiva ad una pace ed un armistizio separati e chi presagiva un radicale cambiamento di fronte. Le classi dirigenti speravano di traghettare il paese limitando i danni: l’estromissione definitiva di Mussolini fece gioire le masse desiderose di pace. Di fatto, mentre la guerra al fianco degli Alleati continuava, si prendevano contatti con i vincitori per trascinare il paese fuori dall’Asse, con la formula della “resa incondizionata” che lasciava intravedere la possibilità di una transizione istituzionale in senso repubblicano. Tutto si sarebbe compiuto nell’arco temporale che va dal luglio 1943 al maggio 1945, dall’ordine Dino Grandi alla Liberazione.

Lo Stato nazionale, nonostante la frattura totalitaria, aveva trovato una fonte di continuità proprio nel riconoscimento di un assetto internazionale e, per riflesso, nella difesa dell’interesse nazionale in questo scacchiere, fino al punto di mutare la propria condizione da nemico ad alleato. Come riuscì il governo di Brindisi, Salerno e Roma ad evitare lo smembramento e i protettorati che toccarono agli altri due membri del Tripartito, Giappone e Germania, a cui veniva interdetto l’accesso all’ordinamento internazionale in qualità di Stati nazionali unitari?

L’illusione di evitare una guerra al paese guidò la condotta di Badoglio e del Re a lungo: l’allontanamento di Mussolini era condizione imprescindibile per instaurare un dialogo con gli Alleati. L’Italia contava su una politica di appeasement da parte degli Alleati e sulla protezione militare di quello che era ancora il nemico formale – americani e britannici – da opporre allo storico alleato tedesco. Il Regno del Sud, nonostante le reticenze di Washington e Londra, richiedeva garanzie per una seppur minima rappresentanza internazionale; l’Italia avrebbe in cambio supportato il fronte anti-nazista nella lotta contro i tedeschi stanziati sul suo territorio. L’offerta era succosa: c’era un esercito difensivo che, una volta schieratosi contro l’occupante, avrebbe garantito accesso a Roma e a operazioni nella penisola balcanica; la flotta era stata risparmiata dai bombardamenti e rimaneva un bottino di guerra ghiotto per gli Alleati; l’esercito italiano poteva resistere fino all’arrivo dei rinforzi americani e, se ben comandati, i soldati potevano combattere con efficacia. Per difendere Roma si doveva giungere allo scontro armato con i tedeschi, scontro che avrebbe congiunto forze antifasciste e contingenti armati, una sorta di unione “nazionalpopolare” dal basso.

Ciò metteva apparentemente fuori discussione l’ipotesi di una resa incondizionata: agli Alleati serviva che il paese cambiasse fronte, non che rendesse tutte le armi, ma l’atteggiamento dei negoziatori rimase ambiguo. Durante le conversazioni di Lisbona, il generale Giuseppe Castellano discusse della possibilità di un doppio armistizio: uno “corto”, o “breve”, che poneva in essere la questione del cambio di obiettivo militare; l’altro, il “lungo” armistizio, affrontava questioni amministrative e politiche più delicate. Fu così che l’8 settembre, con la firma dell’armistizio militare disgiunto dalla resa senza condizioni, all’Italia veniva consentita la continuità istituzionale a patto di attraversare delle fasi critiche e imprescindibili.

Primo tra questi, bisognava cambiare fronte e far diventare l’Italia un campo di battaglia. Il popolo avrebbe “compiuto il suo dovere”, al fianco del Re e rispetto alla volontà di Roosevelt e Churchill: questo sacrificio veniva riconosciuto fino al punto di considerare l’Italia non al rango di alleato, ma come cobelligerante nella sfida ultima contro i fascismi. Se l’Italia usciva dalla guerra, lo faceva entrando in campo alleato e rimandando la questione della forma di governo fino alla fine degli scontri; il generale Eisenhower mostrò di apprezzare la collaborazione italiana, ma al governo Badoglio si chiedeva qualcosa di più: una immediata dichiarazione di guerra alla Germania. Chi poteva farlo? Non esistevano organi collegiali all’interno del governo badogliano, che aveva solo poteri provvisori; d’altro canto, Vittorio Emanuele III era riluttante a prendere una decisione di tale portata senza il sostegno di un’autorità legittima.

Finì per cedere il 13 ottobre 1943: la dichiarazione di guerra rendeva l’Italia pienamente cobelligerante, definendo con chiarezza la situazione giuridica in ottica internazionale. Si consentiva così l’avvio di un percorso di inserimento nel sistema atlantico, rendendo le condizioni dell’armistizio più favorevoli agli Alleati. La vittoria però non poteva esaurirsi ad un trionfo anglo-americano, ma avrebbe dovuto assumere i connotati di una conquista di tutta la coalizione anti-nazista, la stessa che avrebbe concepito il sistema di pace dal 1945 in poi.

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